“Lei guarda oltre il finestrino per innamorarsi dei colori della terra, convinta che chi si innamora continuamente non tradisce mai la propria giovinezza, esercitando il dolce e malinconico esercizio dell’eternità, origliando alla porta della fine dei giorni”.In una Genova piovosa, attorno al letto di Stefano, attore teatrale finito in overdose, si dipanano i pensieri e i dialoghi delle persone importanti della sua vita. Mentre lui emerge da quello che forse non è stato un incidente di percorso, altre esistenze combattono la propria battaglia con la solitudine, con la sconfitta e con il bisogno di amare. Una storia di oggi.
Il libro "Le declinazioni affettive" di Alfredo Annicchiarico (Lupo editore), verrà presentato oggi alle 21,00 da Angelo Petrelli al Caffè Letterario di via Paladini a Lecce
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venerdì 25 settembre 2009
lunedì 21 settembre 2009
RASSEGNA D’AUTORI QUASI INTERESSANTI
CARI CORTIGIANI, dopo una più o meno fertile pausa di riflessione riapre ufficialmente le danze Cortenumero9 a Lecce associazione (già "Curte Noscia") dedita alla creatività e al buon vino.
L' IDENTITA' non è opera che si risolve in una stagione, RELAX è l'unica parola da portare nel taschino una volta valicato l'ingresso di CORTE ANGELO MIALI. Vi segnaliamo la nostra allucinata rassegna letteraria che parte da VENERDI 25 SETTEMBRE. Ecco il programma di RASSEGNA D’AUTORI QUASI INTERESSANTI 2009a cura di Angelo Petrelli e Gioia Perrone.
Venerdì 25 settembre – corte numero 9, ore 21.00. Serata “Amare et Bene Velle”. Le Declinazioni Affettive, lupo editore, romanzo di Alfredo Annicchiarico. Presenta Angelo Petrelli intervista all’editore Cosimo Lupo.
Venerdì 2 ottobre – corte numero 9, ore 21. Serata “Parvum Parva Decent”. Le vicende notevoli di don Fefè, nobile sciupafemmine e grandissimo figlio di mammaggiusta, e del suo fidato servitore Ciccillo, Libri di Icaro, raccolta di racconti di Giuse Alemanno.Presenta Angelo Petrelli.
Sabato 10 ottobre – corte numero 9, ore 21. Serata “Pro Domo Sua”. Il ritorno dell’Ofisauro, Libri di Icaro, raccolta poetica di Gioia Perrone. Presenta Angelo Petrelli, special guest Jack Palma.
mercoledì 12 agosto 2009
Visita di Stato di Alfredo Annicchiarico (Lupo editore). Rec. di Silla Hicks
Se mi ricordo di quant’era bella Alida Valli: certo che sì. E ho anche visto qualche film con Amedeo Nazzari, e Clara Calamai primo seno nudo del cinema italiano. Quello che non ho imparato a scuola – ben poco, tecniche di disegno a parte – l’ho imparato da seconde e terze e centesime visioni, con la tessera Dante Alighieri che con qualche spicciolo ti faceva entrare alle retrospettive, erano gli anni ’80 e non avevo il Moncler ma avevo visto De Sica e Rossellini, e un pomeriggio di sabato che davano Rashomon seduto accanto a me ho trovato Luca, che studiava al classico e voleva fare il regista, ma poi ha preso 60 e vinto un concorso in banca.
Adesso, almeno una volta al mese ceno a casa sua e di Gloria, e mentre i suoi figli fanno casino cerchiamo di parlare, davanti a un DVD di Kim Ki Duk, in genere, ma era Sciuscià il nostro film: il resto, Blade Runner compreso, m’ha intriso dopo.
Siamo una strana coppia, io e Luca, che non mi arriva alla spalla e ha 39 di scarpe eppure è solido come io – trenta centimetri almeno e 40 kg circa più di lui – non saprò mai essere.Gli devo molto, di quello che scriverò di questo libro. Perché è stato lui, a ricordarmeli, i telefoni bianchi, e a raccontarmi di Claretta e della sorella aspirante attrice, e dell’alcova del duce, e di tutta la propaganda sul suo vigore che ha curiosi parallelismi con quanto è sui giornali in questi giorni.
Ed è di questo che parla, questo giallo ambientato nel pieno dell’era littoria, alla vigilia di una visita del Führer che dovrebbe essere perfetta propaganda di regime e rischia invece di arrivare importuna, nel bel mezzo di un intricato groviglio di gerarchi, attricette, picchiatori, e ovviamente poliziotti ovviamente tenebrosi e tormentati (e chi non lo sarebbe, se avesse sposato la Sidney Bristow di Alias?). Una storia che ha di Camilleri, senza il sole che abbaglia di Montalbano e i suoi arancini, ma anche della Dalia Nera, e intendo il film con Hillary Oscar Swank elegantissima in velluto De LaRenta, purtroppo, è da credere, visto che lei è condannata a vincere la serata dell’Academy solo quando indossa quindici chili di muscoli e se si fa massacrare nel finale.
E su tutto questo, echi di Pericle il Nero, e persino di D’Annunzio, se non altro nella scelta dei nomi, chè Aspasia certo gli sarebbe piaciuto, per non dire di Vinzio.
Il fatto – un corpo ritrovato sulla spiaggia del litorale romano, una vedova allegra, il suo amante perfetto capro espiatorio e un commissario ribelle e in preda ai ricordi – obbedisce alle regole del giallo dalla zarina Agata in poi, come le spiega Carlo Lucarelli: ma l’Italia che ne esce assomiglia spaventosamente a quella di oggi, tanto che mutatis mutandis potrebbe essere un istant book.
Perché questo Impero di colonie è un’Italietta, che dietro gli altoparlanti della retorica nasconde tangentopoli, vallettopoli, i terreni pruriti del clero e i più recenti festini: solo il commissario almodovariamente sull’orlo di una crisi di nervi è inverosimile, tutto il resto è reale. Se non avessi letto sul risvolto di copertina che è questo libro è del 2007 penserei a una pasquinata in codice, e nemmeno cifrato, se persino io – che di politica italiana davvero non so niente – sono riuscito ad identificare quasi tutti.
Una fantastica satira, pungente e disillusa, che – pene d’amore perdute di Vinzio Ferrari a parte, che poi è un nome che è una contraddizione in termini, la Rossa di Schumi e la vittoria/sconfitta, Vinzio da Vittorio? O da Vinto? – nemmeno i fratelli Guzzanti al top della forma, con un piglio di denuncia da fare un baffo a “La casta”.
Sorvolo sui dialoghi che qua e là smaccatamente contemporanei (cazzo, come al limite e allucinante, sono linguisticamente figli degli anni ’70), sui troppi aggettivi/troppi avverbi (ma questa è davvero questione di gusti) e su alcuni gineprai del plot, tipo la spia di sua maestà. Questi sono dettagli.
Perché non è un giallo, in realtà, e non è nemmeno ambientato ai tempi del regime. È una sorta di quartina di Nostradamus che in anticipo ha tracciato – romanzandoli, ma solo un po’ - gli eventi di questa estate 2009.
Mi piacerebbe sapere se nella caccia al “chi-è-chi” c’ho preso. Certo, nessun produttore è stato trovato morto seminudo in spiaggia. Ancora, per lo meno. Ma dev’essere per forza un produttore? E per forza morto? Perché di grassoni seminudi (o tutti nudi) se ne sono visti parecchi. E anche di festini. Proprio alla vigilia di una visita importante. Anche se fortunatamente non esiste più nessun Führer. Però, ho sentito parlare di G8…
TELEFONI BIANCHI, CIOÈ GIALLI(VISITA DI STATO SECONDO SILLA HICKS)
Adesso, almeno una volta al mese ceno a casa sua e di Gloria, e mentre i suoi figli fanno casino cerchiamo di parlare, davanti a un DVD di Kim Ki Duk, in genere, ma era Sciuscià il nostro film: il resto, Blade Runner compreso, m’ha intriso dopo.
Siamo una strana coppia, io e Luca, che non mi arriva alla spalla e ha 39 di scarpe eppure è solido come io – trenta centimetri almeno e 40 kg circa più di lui – non saprò mai essere.Gli devo molto, di quello che scriverò di questo libro. Perché è stato lui, a ricordarmeli, i telefoni bianchi, e a raccontarmi di Claretta e della sorella aspirante attrice, e dell’alcova del duce, e di tutta la propaganda sul suo vigore che ha curiosi parallelismi con quanto è sui giornali in questi giorni.
Ed è di questo che parla, questo giallo ambientato nel pieno dell’era littoria, alla vigilia di una visita del Führer che dovrebbe essere perfetta propaganda di regime e rischia invece di arrivare importuna, nel bel mezzo di un intricato groviglio di gerarchi, attricette, picchiatori, e ovviamente poliziotti ovviamente tenebrosi e tormentati (e chi non lo sarebbe, se avesse sposato la Sidney Bristow di Alias?). Una storia che ha di Camilleri, senza il sole che abbaglia di Montalbano e i suoi arancini, ma anche della Dalia Nera, e intendo il film con Hillary Oscar Swank elegantissima in velluto De LaRenta, purtroppo, è da credere, visto che lei è condannata a vincere la serata dell’Academy solo quando indossa quindici chili di muscoli e se si fa massacrare nel finale.
E su tutto questo, echi di Pericle il Nero, e persino di D’Annunzio, se non altro nella scelta dei nomi, chè Aspasia certo gli sarebbe piaciuto, per non dire di Vinzio.
Il fatto – un corpo ritrovato sulla spiaggia del litorale romano, una vedova allegra, il suo amante perfetto capro espiatorio e un commissario ribelle e in preda ai ricordi – obbedisce alle regole del giallo dalla zarina Agata in poi, come le spiega Carlo Lucarelli: ma l’Italia che ne esce assomiglia spaventosamente a quella di oggi, tanto che mutatis mutandis potrebbe essere un istant book.
Perché questo Impero di colonie è un’Italietta, che dietro gli altoparlanti della retorica nasconde tangentopoli, vallettopoli, i terreni pruriti del clero e i più recenti festini: solo il commissario almodovariamente sull’orlo di una crisi di nervi è inverosimile, tutto il resto è reale. Se non avessi letto sul risvolto di copertina che è questo libro è del 2007 penserei a una pasquinata in codice, e nemmeno cifrato, se persino io – che di politica italiana davvero non so niente – sono riuscito ad identificare quasi tutti.
Una fantastica satira, pungente e disillusa, che – pene d’amore perdute di Vinzio Ferrari a parte, che poi è un nome che è una contraddizione in termini, la Rossa di Schumi e la vittoria/sconfitta, Vinzio da Vittorio? O da Vinto? – nemmeno i fratelli Guzzanti al top della forma, con un piglio di denuncia da fare un baffo a “La casta”.
Sorvolo sui dialoghi che qua e là smaccatamente contemporanei (cazzo, come al limite e allucinante, sono linguisticamente figli degli anni ’70), sui troppi aggettivi/troppi avverbi (ma questa è davvero questione di gusti) e su alcuni gineprai del plot, tipo la spia di sua maestà. Questi sono dettagli.
Perché non è un giallo, in realtà, e non è nemmeno ambientato ai tempi del regime. È una sorta di quartina di Nostradamus che in anticipo ha tracciato – romanzandoli, ma solo un po’ - gli eventi di questa estate 2009.
Mi piacerebbe sapere se nella caccia al “chi-è-chi” c’ho preso. Certo, nessun produttore è stato trovato morto seminudo in spiaggia. Ancora, per lo meno. Ma dev’essere per forza un produttore? E per forza morto? Perché di grassoni seminudi (o tutti nudi) se ne sono visti parecchi. E anche di festini. Proprio alla vigilia di una visita importante. Anche se fortunatamente non esiste più nessun Führer. Però, ho sentito parlare di G8…
TELEFONI BIANCHI, CIOÈ GIALLI(VISITA DI STATO SECONDO SILLA HICKS)
mercoledì 29 luglio 2009
Le declinazioni affettive di Alfredo Annicchiarico (Lupo editore). Rec. di Silla Hicks
Non ho mai pensato che la droga potesse aggiustare le cose. Non l’ho pensato adolescente alieno in un mondo non suo, incapace di comunicare nella lingua degli altri e di sembrare come loro. Non l’ho pensato uomo col cuore spezzato, che faceva male a tal punto da tenermi sveglio la notte, tutte le notti, come una parodia dell’uomo senza sonno condannato a rivivere ogni attimo l’inferno.
Non lo penso neanche oggi, che pure vita e morte hanno lo stesso insapore dell’assenza, che mi sono scordato come sia, provare qualcosa, qualsiasi cosa, che non sia questo niente sempre uguale.
Ma se fossi un cinquantenne con una moglie che non vuole vedere e un’amante che ha smesso di lottare e una figlia così priva di un minimo di amore per sé da correre dietro a un frocio, bhè, credo che una pera proverei a farmela anch’io. È questo che mi resta, di queste nemmeno cento pagine – in pitch 12 e formato 10x15, va precisato – che vorrebbero essere sceneggiatura di Lelouch riscritta dalla Margaret Mazzantini e invece sono – volontariamente o no – un condensato drammatico sull’incomunicabilità che solo – forse – una Liaison pornogràphique può essere valido paragone.
Quest’uomo si droga, e lo capisco, non vorrei, ma lo sento, soffrire il male di essere che non riesce a dipanare, senza collocazione come marito né amante né padre.
Ambientato nel sottobosco della musica – ché quella di prima grandezza non lascia spazio a niente altro, divora tutto come i Langolieri – questo racconto – romanzo è una parola grossa – trasuda il dolore di Stefano all’ombra dell’uomo che suo padre è e che a lui non riesce di essere: si droga per scappare, e per quanto sia una scelta idiota non gliene riconosco altre, forse la sua amante potrebbe essere una, ma no, lei non è capace, di tendere le braccia a uno che sta annegando e si dibatte e potrebbe trascinarla sott’acqua, per queste cose ci vuole amore, disperato e assoluto, amore, in una parola, e l’amore non cosa da tutti.
E l’assurdo è che l’amante in questione si chiama Emma, lo stesso nome della Bovary, una che per amore ha sacrificato tutto, e senza pensarci: non so se sia ironia consapevole o no, ma certo funziona, come la storia della figlia, che si chiama Camilla come la vergine guerriera dell’Eneide, una che vuole sembrare tosta e che invece è solo una ragazzina, ingenua e con le calze a rete, commoventemene spudorata come solo a vent’anni si può essere, le ciglia bistrate di una bambina che s’impiastriccia di trucco, e sale in albergo con uno che scopa uomini perché suo padre se’è fatto trovare con l’ago nel braccio.
Storie di ordinario degrado familiare, certo. Ma, lo stesso: dio, che desolazione.
E il tutto scritto in una lingua paratattica che nei punti più riusciti ha di Hanif Kureishi, malgrado il voluto provincialismo dei riferimenti, o anzi proprio per questo. Non è una storia facile, di facile ha solo la lingua, e a tratti nemmeno quella, ché ci sono passi da tema, che stonano – musicalmente parlando – ed è un peccato (un esempio, l’uso dei puntini di sospensione, cui Umberto Eco dedica le indimenticabili pagine del suo diario minimo che mi hanno convinto a bandirli dalla mia tastiera). Concludendo, come dice un mio amico, da uno a dieci, quanto: non so, mi servivano altre pagine, personaggi più spessi e una storia intera. Tra tutti, il cattivo patriarca è l’unico che ha le dimensioni – 2 – che dovrebbe avere, gli altri sono abbozzi, tratteggi, forse solo Camilla può andare com’è. Moglie e amante odiose, senz’appello. L’amante, soprattutto, ché un’amante senza amore davvero serve a niente, e l’amore non si auto/protegge, l’amore per definizione si butta via.
Quindi, povero Stefano: forse, al suo posto mi drogherei anch’io. Anzi, no, perché comunque non ci credo, che si possa mai spegnere la mente. A meno che di non prendere un fucile, una sera di primavera, mentre tutti dormono. Di inginocchiarsi a terra e di poggiare il calcio sul pavimento ed ingoiare la canna, le mani unite sul grilletto per non cambiare idea. So di uno che l’ha fatto. Non so se sia stato coraggio, o paura. So che suo fratello – il suo gemello – è tuttora solo in giro per il mondo, senza riuscire a perdonarlo né a perdonarsi né a piangerlo né a piangere. L’ho ascoltato, parlarne. Non sono riuscito a dirgli niente. Ma so che non farei mai una cosa del genere a mia sorella, e che prego lei non lo faccia mai a me. Spegnere la mente non serve. Scappare non serve. Questa vita fa schifo, è rumore, ma è insieme Sergej Vasil'evič Rachmaninov. Forse vale la pena, comunque, di restare svegli ad aspettare come va a finire.
STORIE DI ORDINARIA TRISTEZZA (Le declinazioni affettive di Alfredo Annicchiarico secondo Silla Hicks)
Non lo penso neanche oggi, che pure vita e morte hanno lo stesso insapore dell’assenza, che mi sono scordato come sia, provare qualcosa, qualsiasi cosa, che non sia questo niente sempre uguale.
Ma se fossi un cinquantenne con una moglie che non vuole vedere e un’amante che ha smesso di lottare e una figlia così priva di un minimo di amore per sé da correre dietro a un frocio, bhè, credo che una pera proverei a farmela anch’io. È questo che mi resta, di queste nemmeno cento pagine – in pitch 12 e formato 10x15, va precisato – che vorrebbero essere sceneggiatura di Lelouch riscritta dalla Margaret Mazzantini e invece sono – volontariamente o no – un condensato drammatico sull’incomunicabilità che solo – forse – una Liaison pornogràphique può essere valido paragone.
Quest’uomo si droga, e lo capisco, non vorrei, ma lo sento, soffrire il male di essere che non riesce a dipanare, senza collocazione come marito né amante né padre.
Ambientato nel sottobosco della musica – ché quella di prima grandezza non lascia spazio a niente altro, divora tutto come i Langolieri – questo racconto – romanzo è una parola grossa – trasuda il dolore di Stefano all’ombra dell’uomo che suo padre è e che a lui non riesce di essere: si droga per scappare, e per quanto sia una scelta idiota non gliene riconosco altre, forse la sua amante potrebbe essere una, ma no, lei non è capace, di tendere le braccia a uno che sta annegando e si dibatte e potrebbe trascinarla sott’acqua, per queste cose ci vuole amore, disperato e assoluto, amore, in una parola, e l’amore non cosa da tutti.
E l’assurdo è che l’amante in questione si chiama Emma, lo stesso nome della Bovary, una che per amore ha sacrificato tutto, e senza pensarci: non so se sia ironia consapevole o no, ma certo funziona, come la storia della figlia, che si chiama Camilla come la vergine guerriera dell’Eneide, una che vuole sembrare tosta e che invece è solo una ragazzina, ingenua e con le calze a rete, commoventemene spudorata come solo a vent’anni si può essere, le ciglia bistrate di una bambina che s’impiastriccia di trucco, e sale in albergo con uno che scopa uomini perché suo padre se’è fatto trovare con l’ago nel braccio.
Storie di ordinario degrado familiare, certo. Ma, lo stesso: dio, che desolazione.
E il tutto scritto in una lingua paratattica che nei punti più riusciti ha di Hanif Kureishi, malgrado il voluto provincialismo dei riferimenti, o anzi proprio per questo. Non è una storia facile, di facile ha solo la lingua, e a tratti nemmeno quella, ché ci sono passi da tema, che stonano – musicalmente parlando – ed è un peccato (un esempio, l’uso dei puntini di sospensione, cui Umberto Eco dedica le indimenticabili pagine del suo diario minimo che mi hanno convinto a bandirli dalla mia tastiera). Concludendo, come dice un mio amico, da uno a dieci, quanto: non so, mi servivano altre pagine, personaggi più spessi e una storia intera. Tra tutti, il cattivo patriarca è l’unico che ha le dimensioni – 2 – che dovrebbe avere, gli altri sono abbozzi, tratteggi, forse solo Camilla può andare com’è. Moglie e amante odiose, senz’appello. L’amante, soprattutto, ché un’amante senza amore davvero serve a niente, e l’amore non si auto/protegge, l’amore per definizione si butta via.
Quindi, povero Stefano: forse, al suo posto mi drogherei anch’io. Anzi, no, perché comunque non ci credo, che si possa mai spegnere la mente. A meno che di non prendere un fucile, una sera di primavera, mentre tutti dormono. Di inginocchiarsi a terra e di poggiare il calcio sul pavimento ed ingoiare la canna, le mani unite sul grilletto per non cambiare idea. So di uno che l’ha fatto. Non so se sia stato coraggio, o paura. So che suo fratello – il suo gemello – è tuttora solo in giro per il mondo, senza riuscire a perdonarlo né a perdonarsi né a piangerlo né a piangere. L’ho ascoltato, parlarne. Non sono riuscito a dirgli niente. Ma so che non farei mai una cosa del genere a mia sorella, e che prego lei non lo faccia mai a me. Spegnere la mente non serve. Scappare non serve. Questa vita fa schifo, è rumore, ma è insieme Sergej Vasil'evič Rachmaninov. Forse vale la pena, comunque, di restare svegli ad aspettare come va a finire.
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