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venerdì 24 luglio 2009
Piovono formiche carnivore e altre inezie di Alessandro Salvi (Aletti editore)
Alessandro Salvi ha una sua forza poetica che non lascia indifferenti, vuoi per registro, per un suo timbro per versi personalissimo, vuoi per il messaggio poetico. La sua scrittura gioca in maniera obliqua tra vita e transitorietà delle cose, amore e distanza, trasformandosi in forza e sublimazione che solo si può dare quando il canto è autentico. Certo Separazione, Lutto, Nostalgia e Dolore sono costanti che hanno popolato e popolano tutt’ora le migliori produzioni poetiche da Omero a Virgilio, da Dante a Foscolo a Hikmet a Neruda, ma la poesia di questo autore che per Aletti ha pubblicato “Piovono formiche carnivore e altre inezie” si tratta di una costante rimetabolizzazione di tracciati autobiografici lasciati a metà, e che occupano (proprio per questo) con la loro pesantezza ogni giorno della propria vita. In lui non sussiste nessuna lotta con il passato, i ricordi sono ombre e talvolta si materializzano in un’angoscia latente, e costante. Per quel che ho avuto modo di percepire, in taluni componimenti velenosissimi come ad esempio “Delirio in do#”, Salvi sa che la Poesia oggi è prerogativa di pochissimi, vuoi per la questione dolente del leggere libri di poesia, vuoi per l’industria culturale in questo settore, in più di qualche occasione ingenerosa verso gli esordi o comunque poco attenta a produzioni di buona qualità. Alessandro Salvi, non solo è consapevole che fare il poeta non rientra nell’hobbystica, e che dunque è una scelta di responsabilità nella propria esistenza, una vera e propria missione direbbe il poeta albanese Gezim Hajdari, che non è l’essere mestieranti delle parole che fa di uno scribacchino un poeta, anzi questo autore assume su di sé l’onere della Parola, che porta sempre e lo fa in maniera lucida, lo stampo del tempo in cui vive: “La poesia non sta tra noi. Non più./ Cerchiamola nel bottone mancante/ di una camicia color marrone, nel/ tampone usato gettato per terra/ tra vari rifiuti, tra gli sputi e i mozziconi/ nella sale d’aspetto delle stazioni/ di raccordo./ Anzi, no, meglio non cercarla/ perchèla poesia è come la morte,/ prima o poi sarà lei a farsi viva./” (“Delirio in do#”). Che l’intero lavoro che qui presentiamo sia acuto, ironico, spregiudicato, struggente, furibondo, rabbioso, è fuori discussione, ed è fuori dubbio che sia di difficile classificazione, o incasellamento in una qualche determinata corrente poetica. Salvi è cantore di un grande disagio esistenziale e di profonda irrequietezza generazionale che porta alla disintegrazione di qualsivoglia modello di vita, ma che non si preclude la bellezza di una guerra spietata, fatta di carne e sangue su uno dei campi di battaglia in assoluto tra i più difficili: quello della libertà e onestà di spirito! Inoltre per questo poeta l’amore è lontana da qualsiasi seducente carezza, non è un sentimento intenso, totalizzante o profondamente esclusivo rivolto verso una persona, un animale, un oggetto, o verso un concetto, un ideale. Salvi non parla dell’amor cortese, romantico, ma delinea un aspetto forse patologico dell’amore, forse più vicino a certe nuances del dionisiaco, ma che si configura senza ombra di dubbio come una visione di questa categoria vicina a certa poetica americana degli anni ’70 (Charles Bukowski, William S. Burroughs tanto per intenderci) e costituita dal suo essere dunque spigolosa, scomoda, disturbante e che inevitabilmente porta ad auto scandagliarsi nei privatissimi recessi di meschinità dell’essere semplicemente, maledettamente un uomo: “L’amore è un liquore andato a male,/ più dolce del miele/ facilita il comporre/ poesie. Ma quando muore/ in bocca lascia un sapore amaro/ e nel ricordo brucia/ come su una ferita aperta/ brucerebbe il sale./ Amore non si dice/ perché non significa/ niente di preciso. E porta male./” (“L’amore è un liquore andato a male”)
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