Il senso della catastrofe è un pensiero che ricorre spessissimo tra le paure ancestrali della collettività, e che non sono prerogativa solo della società dello spettacolo di Hollywood, degli apocalittici nel mondo della scienza e della tecnologia o di metafisiche di stampo ecological-new Age. Il disastro, non è solo quella parola che indica un evento o una serie di eventi catastrofici di origine naturale, ma fa parte di un orizzonte mentale ultimo, dove tutto ciò che di peggio la mente umana può aspettarsi circa il suo destino, trova la consistenza più forte. Parliamo di un concetto-limite dunque che a tutt’oggi affascina moltissimi studiosi non solo nel campo della narrativa, ma anche negli studi di saggistica che hanno portato ad esempio Naomi Klein a teorizzare la Shock Economy (ovvero l’impresa ultralibertaria di guadagnare su crisi economico-finanziarie e cataclismi naturali) e Esperanza Guillén Marcos a scrivere un’opera per Bollati Boringhieri, sull’estetica dei naufragi nella pittura tra ‘700 e ‘800.
Ma la Catastrofe è anche un nodo concettuale problematico da sciogliere per continuare a riflettere sulla destinalità di noi comuni mortali. Il magistrale Alberto Ponticelli, autore di un volume singolarissimo, chiamato Blatta, pubblicato da Leopoldo Bloom Edizioni, consegna al pubblico un lavoro che apre una prospettiva inquietante e desolante. Devo dire che ho respirato subito quel senso di claustrofobica e psicotica solitudine che mi ricordano le “nuances” di Io sono Leggenda di Richard Matheson (edito in Italia da Fanucci) o le desolazioni tecno-urbane della città di Salem nella serie di Alita del grande Yukito Kishiro. Ponticelli ha un tratto maturo, dalla precisione quasi maniaco-osessiva per i dettagli, ma al contempo una libertà nel segno grafico che gli consente di trasferire le sensazioni che vuole comunicare ai suoi lettori con estrema puntualità e precisione.
L’intero albo è in rigoroso bianco e nero, e questo aumenta il senso di spaesamento che provoca nel lettore. In Blatta si parla di una terra simile a quella di oggi, vista con gli occhi di un “uomo qualunque”, dove un Grande Fratello controlla una società grigia, alienata, alienante, degenerata. Un sistema sociale che ha trasformato gli individui in unità di produzione, che vivono relegate in una decina di metri quadri. Una produzione che grazie alla clonazione selvaggia può protrarsi in eterno. Isolamento totale, eliminazione del libero arbitrio sono diventati gli imperativi categorici del un nuovo ordine. L’identità, non ha più valore. Tutto ciò che si muove in questa patologia sociale si muove nell’ombra, e l’unica luce, l’unica finestra sul mondo per diventa un piccolo schermo di ambigua utilità, posto nei pochi metri quadri di stanze strette come atomi e dove ci si consuma l’esistenza.
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giovedì 25 giugno 2009
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