Anni fa, prima che la mia vita finisse e cominciasse tutto questo, andammo al cinema a vedere 23, innocuo filmetto estivo confezionato su uno degli apparentemente più scarni racconti di Stephen “it” King.
Non c’è molto da dire sulla trama né sull’atmosfera allucinatoria, livida e claustrofobica, in cui Donnie Darko echeggia insieme a Spider (che è un compitino, ok, ma del mio adorato Cronenberg) e persino al telefilm Numbers: ruota tutto attorno a questo numero, il 23, che il protagonista trova praticamente ovunque, una persecuzione onnipresente cui non riesce a sfuggire.
Apparentemente, niente di che: eppure, nei giorni successivi, cominciai anch’io a notare il susseguirsi di 23 nelle cose più banali della mia, di vita: d’un tratto, era come se fosse davvero ovunque, nelle cifre – sommate a due a due- della targa della mia motrice, in quelle – moltiplicate per due, prima di sommarle a tre a tre - della mia patente, persino nelle date –opportunamente elaborate -che mi significavano qualcosa.
Senza volerlo, mi stavo convincendo che questo numero incombesse davvero –opportunamente mimetizzato - sul mondo: ormai certo che non fosse possibile che la frequenza con cui si presentava a tradimento fosse casuale, telefonai addirittura a mia sorella, che è un matematico, per cercare nella sua amicizia coi numeri primi un qualche sostegno alle mie ipotesi.
Era la prima volta – ed è stata anche l’ultima – in cui i suoi numeri dialogavano con me: voglio dire, io i compiti di matematica, a scuola, li copiavo. So a stento le tabelline e i giochi tipo sudoku hanno per me lo stesso grado di difficoltà della scalata dell’Annapurna, ma ero così preso dalle mie indagini sulla presenza del 23 da pensarci di continuo, di ricavarlo persino dalle cifre del prezzo del gasolio in autogrill, o dalla partita IVA sullo scontrino del caffè, arrivando a moltiplicare le soste per cercare conferme.
Gentilmente, Ilaria non rise. Aspettò che finissi, e mi dimostrò, in due parole, che qualsiasi numero può sembrare onnipresente se siamo noi a cercarlo, perché, di fatto, scomponiamo le cifre di tutto quello che troviamo fino a che non lo scoviamo, utilizzando qualsiasi espediente per costruire l’algoritmo necessario con tutti i mezzi a disposizione: e tanto più ci convinciamo, quanto più il gioco diventa facile, perché è la nostra mente a continuare a giocare, di nascosto, e a servirci il risultato ammantato di meraviglia, anche, affinché possiamo restare al sicuro, aggrappati alla nostra teoria, che pure non ha altro fondamento che quello che noi abbiamo deciso di darle.
Fu così che la mia liaison con il numero 23 finì bruscamente, e con essa ogni mia velleità di vedere nei numeri altro che prezzi o limiti di velocità. Non capirò mai niente di matematica.
Ma da quei giorni mi è rimasto l’insegnamento a partire dall’ipotesi, senza manipolarla per potersi scegliere il finale.
Fatti i debiti distinguo, mi sembra che la rilettura in chiave esoterica di miti, leggende, letteratura e fumetti abbia molto in comune con la mia ricerca di allora del numero 23 nella quotidianità della mia vita.
Voglio dire: molto di quello che l’uomo produce con le parole ha sicuramente a che fare con la sua evoluzione, e ogni progresso viene fuori da un percorso.
Esistono generi interi che parlano di questo, dal bildungroman, che significa letteralmente racconto di formazione, a Siddharta.
Tutto è cammino, tutto è ricerca. Di cosa, poi, questo sì che è vario.
Diventare adulti è un percorso di iniziazione: nella foresta per Kunta Kinte, sulle autostrade per me e altri, attraverso i tre regni dell’aldilà per Dante, le 7 fatiche per Ercole e qualche mese in una caserma-anticamera dell’inferno del Vietnam per i ragazzi di Full Metal Jacket.
Qualsiasi sia l’ambientazione, la sostanza non cambia: affrontando le necessarie prove si diventa grandi, e si conquista il diritto a sedere a tavola con gli adulti.
O a far parte di un gruppo, perché si è superato il test d’ingresso: questo vale per le confraternite universitarie, per il Rotary, per la Yakuza, per il MENSA, e per ogni altro circolo chiuso, che selezioni i suoi membri in base a qualche caratteristica che li renda “speciali”e quindi degni di farne parte.
Che caratteristica sia, ancora, questo sì che varia.
Nell’epoca antica, il mondo degli dei e degli eroi, erano il coraggio e la forza fisica ad avere valore.
Oggi come oggi, che un AK47 uccide uguale, anche nelle mani innocentemente incoscienti di un bambino di sei anni, ovviamente le regole di ingaggio sono cambiate. Ma la sostanza, quella no: tutti credono di essere unici, di avere qualcosa che li renda migliori di altri. I circoli non sono che espressione di questo. Quelli magici, in particolare.
È quantomeno consolatorio cercare rifugio nell’immateriale, per riscattarsi da una vita concretamente grigia (che ci sia qualcuno che ci specula, è un discorso a parte), e in fondo non è cosa diversa che trasformarsi in avatar su second life: in un caso e nell’altro, si esce da questa dimensione. Che sia l’unica che io credo esista, questo è un problema mio.
Ma arrivare a vedere simboli esoterici in tutto o quasi quello che è stato scritto o disegnato finora, è davvero come il mio cercare il numero 23 negli scontrini degli autogrill: è voler scovare, a tutti i costi, quello che cerchiamo.
Sicuramente esistono autori che hanno usato simbologie esoteriche, ma perché appartenevano al loro background, alla loro epoca e al loro modo immaginifico di raccontare. Ciascuno di noi scrive per i libri che ha letto e i film che ha visto, ha un suo Pantheon, e lo tiene per la mano.
Pentacoli, rosacroce, …tutto può starci, ma addirittura vedere nei guantoni del primo Mickey Mouse un riferimento subliminale alla massoneria vi prego no, e giù le mani dai Puffi, che siano metafora del mondo ok, ma il Grande Puffo –Gran Maestro per via del cappello rosso è davvero come il 23 nascosto nel mio codice fiscale.
Preferisco continuare a pensare che questi gnometti blu, un po’ folletti, un po’ condominio di ringhiera siano solo quello che sembrano, un fumetto/cartone animato per bambini, con il solito schema dei buoni che vincono e del cattivo che resta beffato, il pasticcione Gargamella che più che un alchimista è un maghetto da strapazzo, perfino simpatico per tutte le bastonate che sistematicamente prende: se proprio vogliamo trovarci un substrato ideologico, il villaggio dei Puffi è un’edulcorata Utòpia, il comunismo della città del sole in salsa mcdonald, le punte smussate per non ferire nessuno.
Ma basta così, niente cosmologia agnostica né altre tortuose interpretazioni che assomigliano a sciarade per iniziati, e intendo l’ultimo termine nel senso di gente abituata a riconoscerle, magari perché compra ogni mercoledì la settimana enigmistica.
Il senso del Codice Da Vinci è l’amore feroce di un figlio per il padre che si è scelto, ed è lo stesso del Frankestein della Shelley, che piange sulla zattera per quel padre che non gli ha mai dato un nome.
Il resto, il criptex, il collage di cadaveri, Maddalena e Gesù e la chiave di volta, la vita dopo la morte, sono contorno, attirano i curiosi e fanno vendere, va bene, ma non è quello il vero mistero.
L’unica simbologia, per quanto faccia male, resta la disperazione del rifiuto, del diverso troppo bianco o troppo pieno di cicatrici, del suo cuore che grida l’urgenza di un abbraccio che nessuno ha il coraggio di dargli, del suo pianto che nessuno ha voglia né tempo di ascoltare.
Bisogna essere iniziati davvero (alla tragedia della specie umana) per sentirlo, attraverso il rumore dei simboli del niente, della fuga, dei giochi di lettere e numeri e carte.
Ma una volta che ci si riesce, è fatta.
Perché si resta capaci di sentirlo. E si smette di avere paura.
(IL SENTIERO DEL BOSCO INCANTATO – APPUNTI SULL’ESOTERICO NELLA LETTERATURA. LUIGI PRUNETI, LA GAIA SCIENZA EDITRICE, 2009, BARI) - LA LEZIONE 23
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martedì 5 maggio 2009
IL SENTIERO DEL BOSCO INCANTATO di LUIGI PRUNETI (LA GAIA SCIENZA EDITRICE). REC. DI SILLA HICKS
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