Lo dico subito, questo libro non racconta nessuna storia. Non è un romanzo e nemmeno un saggio, nemmeno una raccolta di poesie, è una guida turistica, o meglio una guida e basta, per chiunque passi da questa regione in cui stavo per dire vivo anch’io, ma questa sarebbe una cazzata, io passo il 90% del tempo sulle strade, e poi non è vita, la mia, diciamo che quando torno sto qui, in questa terra aspra come la schiena di un’asino, avrebbe scritto Tirteo, anche se questo non è il suo scoglio nell’Egeo, ma una penisola nella penisola.
Questo libro riassume – no, non riassume, frammenta – in 101 meritevoli istanti redatti da Rossano Astremo, questo posto e i suoi aspetti più o meno caratteristici, unici non so, ho viaggiato abbastanza da capire che non c’è mai niente di nuovo per chi sa guardare, e mi spiace che questa frase non l’abbia scritta io, mi spiace davvero, perché condensa il senso globale della storia e del mondo (è di V.A. Conte, comunque, la frase).
Insomma, questo libro – ce ne sono altri, su altre regioni e altri luoghi – non si propone di raccontare una storia, e infatti non lo fa, e io sono uno che legge storie, e cerca di inventarle, vorrei dire, anche, ma non sarebbe vero, perché io piuttosto cerco di trasformare in storie le cose che vivo.
Ma comunque sia, quindi, non posso dire se è un libro buono o no, ma solo se è o no utile, e dico che lo è. Lo è perché almeno in alcuni punti coglie il senso di quello che è la vita qui: parlare di cultura locale mi sa di folklore e di fatti non lo farò, come non parlerò di tradizioni e menate del genere, no, ma è innegabile che questo posto abbia un’anima, che custodisca un’identità fatta consapevolmente o meno della storia che gli è scivolata addosso, e che non si può ridurre alla notte della taranta, se no davvero siamo alla McPuglia, e non voglio credere che sia questo, quel che rimane della terra di svevi e normanni e turchi e martiri di Otranto e prima di loro dei greci di Sparta che fondarono Taranto.
Questa regione, che non m’appartiene più di quanto le appartenga io, che ci sono stato deportato bambino e uomo ci sono rimasto prigioniero dell’amore prima e del dolore poi, con cui ho fatto pace per i suoi scogli prima di vederti e per te per tutto il tempo da quell’istante in avanti, da cui non me ne vado anche ora che potrei finalmente scappare perché non è casa mia, no, ma non c’è posto che possa esserlo, questa regione in cui sto seduto a scrivere al portatile di mia sorella, seduto al tavolo della sua cucina, questa regione è un organismo vivo, pulsante, che si evolve ogni istante eppure mantiene un dna che è suo.
Perché, questa regione che non porta più fazzoletti neri in testa né abita nei trulli, ma veste in jeans e sta in palazzi come quelli che ci sono dappertutto al mondo, non grattacieli ancora, no, ma ci arriverà prima o poi, e si dibatte nella crisi che globalizza questo tempo più della Coca Cola, in cui il poco lavoro che c’è è precario e molti semplicemente s’arrangiano, trincerandosi nell’adolescenza protratta perché dopo l’università non c’è sbocco, si dice, è tante cose, e tante tutte assieme, che 101 sono troppe, e anche troppo poche.
Non posso – per i motivi che ho detto: non è né vuol essere opera letteraria – dire che cosa questo libro mi lasci, quando l’ho chiuso, perché non è abitato da fantasmi che possa sperare o temere di rincontrare. Ma posso dire quante di queste 101 cose da fare in Puglia prima di morire mi sembrino assolutamente doverose, e quante ne ho fatte, anche, perché per me e per chiunque sia qui da abbastanza tempo questa guida è anche, necessariamente, amarcord.
Una è una capatina al bar Paranà, che adesso è frequentato soprattutto da debosci universitari e radical chic sinistrorsi, ma dieci, quindici anni fa c’andavo anch’io. Aveva – pare abbia ancora – prezzi abbordabili e un’atmosfera da taverna, in un’accezione che contiene marinai e fumo e attesa e speranze, e apertura al futuro e a chiunque entri, a prescindere dell’etichetta sui suoi vestiti. Spero che sia ancora così, ma il tempo è passato e niente resta uguale.
Un’altra è adottare un cane in un canile. Ed è una cosa importante che questa guida lo dica, perché questa è tradizionalmente una terra contadina, e la vita dei campi – fuor da edulcorate digressioni bucoliche - è tutto fuorché tenera con gli animali improduttivi, lusso che non può permettersi. Non ho visto molte persone mettere da parte gli avanzi per i randagi, qui: molti riescono tranquillamente ad ingozzarsi nei ristorantini all’aperto del centro a due passi da un animale affamato che li guarda, e si tratta di professionisti, di gente che ha soldi e dovrebbe essersi lasciato il retaggio campestre alle spalle, né più né meno come chi regala ai suoi bimbi un cucciolo – firmato, è chiaro - a natale e lo dà via a pasqua, perché sporca e come faccio a tenere la casa pulita e altre menate del cazzo. Gente cui spaccherei volentieri la faccia, perché la loro inciviltà mi fa vergognare di stare qui quanto il cattivo gusto delle loro Lacoste pastello, e perchè non si può andare da nessuna parte se non si ama il casino di bambini e di cani, e non si sente il cuore stringersi per gli uni e per gli altri. Piccola parentesi: come spesso accade, è chi ha studiato meno/guadagna meno/ha meno che ha più cuore. A volte, credo che sia perché i soldi insozzano tutto ciò che toccano. Ma non so se sia così, o sia solo un caso. In ogni modo: il libro parla del canile di Manduria, ma penso che uno qualsiasi faccia ,lo stesso, o anche raccogliere un cane per strada, come abbiamo fatto – più volte – noi. Adesso, me ne è rimasto uno solo, un vecchio incrocio di pastore silenzioso e solitario, di cui mi occupo io ma che continua ad aspettare te. Ho cercato di spiegargli che non tornerai, ma che vuoi che capisca, è solo un cane, in fondo. Non si può pretendere che abbia più senno di un uomo.
Infine: il casellante della sud est di Tutino, l’uomo che guardava i treni di Benhadj, meraviglioso documentario visionario che credevo avessimo visto in dieci, qui, ma fortunatamente l’autore della guida è tra questi, ed è un miracolo, come lo è Puccetto, che dipinge sulle sue pezze un caleidoscopio di mondi, lui che non ha mai potuto visitarne nessuno. Un universo che si evolve restando quello che è, nutrendosi di quello che ha, anche se è poco o niente.
Come questa terra. Come era, e come, forse, se decidesse di togliersi la maschera del conformismo consumistico della sua bella gente che può, e finalmente mandasse affanculo i lounge bar, le pagliacciate come la notte della taranta e il pinot grigio col sushi, potrebbe essere, ancora.
Altrimenti,prima o poi, sarà il mare spunnatu, almeno per chi è un nuotatore come me, ad esserne l’unica esperienza autentica, quella da fare prima di morire.
(Il bar Paranà, i cani di Mandria e altre cose da ricordare - 101 COSE DA FARE IN PUGLIA ALMENO UNA VOLTA NELLA VITA DI ROSSANO ASTREMO – letto da Silla Hicks)
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martedì 8 settembre 2009
sabato 18 luglio 2009
Rossano Astremo, 101 cose da fare in Puglia almeno una volta nella vita (Newton Compton). Anteprima dell'autore
Carpignano Salentino è un paese di quattromila anime, in provincia di Lecce, distante 15 chilometri da Otranto. Nel 1974, da maggio ad ottobre, Carpignano ospitò Eugenio Barba e il suo Odin Teater. In quel periodo la compagnia teatrale danese era in tournee formativa e scelse Carpignano come base delle sue attività. Dopo un iniziale periodo di seminari ed incontri, Barba propose l’idea di scambiare le tradizioni locali di musiche e danze con gli spettacoli del suo gruppo. Immaginate ora la presenza, nelle strade di un piccolo paesino del Salento, dove gran parte dei suoi abitanti non sapeva ancora né leggere e né scrivere, di spettacoli teatrali d’avanguardia. L’iniziale reazione dei carpignanesi fu d’incomprensione. Questo sino a quando un gruppo di amici diede vita ad una festa paesana improvvisata, in cui a farla da padrona furono musiche e balli tradizionali, assaggi di prodotti tipici preparati in famiglia e vino locale. Era l’11 agosto del 1974. Barba ebbe il merito di condurre gli abitanti di Carpignano fuori dalla monotonia dei una vita spesa nei campi e diede la dimostrazione del fatto che rivivere la propria cultura può dare gioia e felicità, anche se solo per una notte. Questa è l’origine della Festa te lu mieru (Festa del vino), che dal 1975 si ripete ogni anni nella prima settimana di settembre. Definita la “madre di tutte le sagre”, la Festa te lu mieru accoglie ogni anno migliaia di visitatori provenienti da tutta la regione, i quali si riversano nelle due piazze del paese, Piazza Duca D’Aosta e Largo Madonna delle Grazie, dove sono presenti centinaia di stand enogastronomici e i palchi in cui s’inscenano spettacoli con pizziche e tarante a scandire il ritmo dell’evento. Occasione ghiotta questa per gustare i piatti tipici del Salento, dai pezzetti di cavallo al sugo alla carne arrostita, dalle friselle ai fagioli, dalle pitte (piatto tipico salentino realizzato con patate) alle uliate (pane con olive), dalle pittule fritte (frittelle salate) alle porzioni di patatine fritte di cui ogni anno ne vengono distribuite oltre centomila, il tutto annaffiato dal vino locale distribuito a fiumi. È una sagra, questa di Carpignano, che coinvolge e travolge ed anche chi si reca con le migliori intenzioni sarà vinto dal potere dionisiaco che conquista tutti i partecipanti.
Restare sobri sarà un’impresa ardua.
(Carpignano Salentino . Cercare di restare sobri alla Festa te lu mieru di Rossano Astremo - per concessione dell'autore)
Rossano Astremo, 101 cose da fare in Puglia almeno una volta nella vitacollana Centouno n. 25, Newton Compton
Dal 30 luglio in libreria
Restare sobri sarà un’impresa ardua.
(Carpignano Salentino . Cercare di restare sobri alla Festa te lu mieru di Rossano Astremo - per concessione dell'autore)
Rossano Astremo, 101 cose da fare in Puglia almeno una volta nella vitacollana Centouno n. 25, Newton Compton
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