Una creatura misteriosa turba il sonno di Paolo, gettandolo nell’angoscia. La sente muoversi lungo il perimetro della stanza, picchiettando il pavimento con le sue unghie ricurve. Finché una notte, svegliandosi con la sensazione di soffocare, nella penombra della camera distingue le sembianze di una grossa bestia accovacciata sul suo petto, intenta a scrutarlo. L’incontro dura pochi istanti, prima che la creatura con un balzo si dissolva nel buio, lasciando Paolo in un profondo sgomento. Nel frattempo una morte inspiegabile, forse un omicidio, scuote il call center dove lavora, già in subbuglio per le voci di un’imminente delocalizzazione. Ma la polizia indaga senza esito, mentre tutto sfugge in una realtà rarefatta, sospesa fra inquietudine e allucinazione. Sullo sfondo di un Salento desolato e decadente, fatto di campagne abbandonate e invase dai rifiuti, Fabio Carbone mette in scena l’insanabile contrasto fra un mondo nuovo, governato dalla mancanza di empatia e da un irriducibile cinismo, e la vecchia società contadina, di cui solo un’eco lontana e ormai indistinguibile lambisce quelle che ci sembrano le consolidate certezze della contemporaneità. Nel mezzo, sospeso tra il mondo vecchio e quello nuovo, c’è l’uru, che proprio dalle credenze di quell’antica civiltà ha origine. Manifestazione dei timori più reconditi e delle colpe mai espiate, di quegli impulsi più arcaici da cui la modernità si illude di essersi emancipata, questi profondi turbamenti prendono la forma dell’animale, una creatura fatta della stessa carne di chi ne subisce i tormenti.
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