«Berlino è troppo grande per Berlino» è il curioso titolo di un libro
del flàneur Hanns Zischler che scherza sulla bassa densità abitativa di
questa città policentrica così estesa: una delle ragioni per cui la
sensazione che suscita è quella di libertà e «spazio». Ma «Berlino è
troppo grande per Berlino» anche in senso più ampio: come convivere e
tenere viva la fiamma di un mito così ingombrante come «Berlino, città
di tendenza»? Per capirlo è necessario un viaggio alle sue origini, gli
anni Novanta, quando il tempo sembrava essersi fermato: cicatrici della
guerra ovunque, stufe a carbone, palazzi fatiscenti, minimarket
spartani, mai una casa che avesse l'ascensore e un citofono funzionante.
Visitarla era un'esperienza allucinogena, un viaggio nel passato e nel
futuro allo stesso tempo, quando una gioventù curiosa sembrava aver
fatto proprio - ribaltandolo in positivo - il famoso aforisma di inizio
Novecento di Karl Scheffler: «Berlino è condannata per sempre a
diventare e mai a essere.» La ricerca della rovina abbandonata, la
caccia al cimelio del mercatino, le feste illegali negli scantinati oggi
non ci sono più. Quell'epoca di archeologia urbana è finita per sempre:
quasi tutti i palazzi sono stati ristrutturati, le case occupate
sgomberate e i negozi con il tipico arredamento Ddr hanno chiuso. Senza
più ferite del passato il corpo della città è forse meno drammatico ma
di certo è più forte, sano. Anche gli abitanti hanno perso qualcosa di
quello struggimento, di quella vena romantica e autodistruttiva, e oggi
c'è perfino chi viene a Berlino per lavorare e non solo per «creare» o
semplicemente oziare. Ma Berlino rimane una città giovane, che non si
attacca morbosamente a un passato «povero e sexy» e i cui unici feticci
intoccabili sono una multiculturalità che non accetta compromessi e un
futuro che è sempre tutto da scrivere. Anzi, per citare uno che la
conosce bene, Berlino è e sempre sarà «potenziale puro».
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