Quale scena più del labirinto veneziano può offrire ispirazione per
racconti di intrighi, di identità smarrite, di misteriose scomparse e
fortunosi ritrovamenti? Ad ogni angolo di Venezia può cambiare quella
maschera che il nostro volto è sempre in sé. Ma non è questa dimensione
della città, pure descritta con un gusto raffinato per i dettagli, per
le “curiosità” della sua storia, a costituire il vero interesse dei
“gialli” veneziani di Forcellini, di cui questo è l’ultimo, il più
semplice nel suo plot, e il più complesso e ricco nella descrizione di
figure e psicologie. Con una vena di malinconica ironia è il veneziano,
la lingua di Venezia, il vero protagonista. Con quale grazia essa
riemerge dal discorso “normale”, come ancora cerca di resistere anche in
quelle sue parole che vanno dimenticandosi. Nel romanzo si parla di
“fughe psicogene” – quella di Forcellini verso il suo dialetto (ogni
lingua è un dialetto, e custodisce qualcosa dell’infanzia) sembra
esserlo. Una fuga verso un re-fugium ormai impossibile, un rifugio che
si può dare oggi soltanto per tracce, indizi, suoni. È forse una
comunità scomparsa quella che Forcellini qui immagina, con un sorriso
che ha un po’ il sapore dell’addio.
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