Per anni gli sviluppi del «caso Ilva» hanno occupato le cronache
nazionali, per anni si è discusso del destino del siderurgico, costruito
a Taranto nei primi anni sessanta e ancora oggi ritenuto «strategico»
per il paese. Per anni la fabbrica, grande quasi quanto la città, è
stata al centro di uno scontro tra proprietà, sindacati, associazioni
ambientaliste, magistratura e politica. Per capire come si è giunti a
una delle più gravi crisi industriali e ambientali della storia d'Italia
occorre ricostruire il rapporto fra Taranto e il siderurgico partendo
dalle sue origini e ripercorrendone l'evoluzione. Pensata come fattore
propulsivo per lo sviluppo del paese, e del Mezzogiorno in particolare,
l'acciaieria ha assunto da subito una posizione preminente nei confronti
del contesto locale. Le trasformazioni innescate dal suo insediamento
hanno sollecitato una dialettica intensa: l'impatto economico e
ambientale della fabbrica, il modello di sviluppo ad essa legato, la
stessa organizzazione del lavoro sono stati messi in discussione da ampi
strati della società ionica in nome di un'industrializzazione attenta
ai bisogni del territorio. In seguito, la crisi dell'impresa pubblica e
la sconfitta del movimento operaio hanno trasformato Taranto in una
delle punte avanzate del nuovo corso liberista. Con l'«era Riva» fra lo
stabilimento e il contesto circostante si è aperta una cesura. In questo
quadro è esplosa l'emergenza degli ultimi anni, che ha assunto la forma
di un conflitto fra ambiente e lavoro, fra fabbrica e città. Uno stallo
per il quale ancora non si intravede una via d'uscita. Con un'analisi
appassionata e ben documentata, Salvatore Romeo ripercorre una vicenda
in cui storia economica e storia d'impresa, storia urbana e storia
ambientale, storia politica e storia sociale si intrecciano facendo
emergere il racconto di una città e della sua interazione con la
fabbrica.
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