Nel libro di Aleksandr Malinin il sentimento si emancipa dall’individuo
per diventare ritmo. Il titolo, oltre a condensare una descrizione,
indica chiaramente la ricerca: «ossa e pietre, /tutto ciò di cui siamo
ricchi». Il soggetto poetico si assottiglia, minuscolo «come un
formaggino», «Rosso e secco», viene ricordato attraverso le tracce
adipose: «Esca da me questo grasso, chiamato ansia, chiamato ardore,
definito spavento... colando su un piatto vuoto». L’intervento poetico
consente al soggetto, «noi tali», di perdere peso attraverso situazioni
quotidiane: «usciremo senza alcun battito, /durante la tosse». Non si
tratta di poesia funeraria, l’autore si appella, al contrario,
all’«abbondanza» del reale. L’attenzione alla fisicità porta a
collegamenti edilizi inaspettati: «Si scosta dall’anima la nuova carta
da parati, /e non c’è nulla sotto di essa, /una muratura sconnessa...
stringiti a questa fessura, come allo spioncino:/è così buio nel tuo
corpo». Il pensiero sorveglia non solo la metrica ma anche le domande:
«Il bosco è guasto, il suo odore è infuocato. / Ma ciò che brucia non
attrae, /invoca. / Che cosa sarà al suo posto - /difficile immaginarlo.
Terra incolta, fumo?». Gli argomenti («diventati cattivi, /
immangiabili») suggeriscono una cadenza, un senso («danzino le erbe, /e
le persone, come ghiande») e l’immaginazione assale il poeta
«pregustando la fine del mondo». Bisogna amare la poesia per coglierla, è
un’allergia speciale: «I sogni sono la lontananza, /si possono
confondere con i polloni». Con qualche piacevole seduzione barocca, la
poesia di Malinin ci risparmia la retorica e l’espressionismo: «gli
iris, iridescenti, /si smorzano comunque. / Finché non resta di essi
l’unico, azzurro, /qualunque». La sua poesia «ronza, come un’ape/sul
bordo di una poesia, /che è il giardino». Dissepolta, ristagna nel «Blu
chiarificato, quasi azzurro, /la profondità sopra di me, /fa’ luce fin
là, là è ancora buio, /qui c’è già l’amore». Ci parla della fine: «Che
cosa ci attende prima della morte:/il tè opaco delle bustine, una
limonata evaporata». Il tempo coincide con l’appetito («il tempo è
sazio») e materializza i morti («più neri del tè»): «dice terra, terra,
/che ti interessa di me, /io sono nella mia mente, sono tutta in me, /a
che mi serve il corpo, /lo stelo, /una pista d’atterraggio».La voce,
«defluita, quasi sedimentosa», senza cariche ideologiche, «Si dilata e
si stringe» fino a rendere «il buio» qualcosa di attraversabile,
«sensibile alla luce... la visibilità di me». Nella nervatura del testo
si scorgono corrispondenze tra il quotidiano e il siderale: un esercizio
frattale del linguaggio. C’è Gogol e il suo battaglione di anime morte
in questa sensibilità convincente: «come incaricata per la luce:/l’uomo è
l’angusta strettoia (Alberto Pellegatta)
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