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lunedì 4 luglio 2016

U vizzje a morte. Il vizio della morte. Poesie 1997-2009, d'Assunta Finiguerra, a cura di Roberto Pagan e Rosangela Zoppi (Cofine). Intervento di Nunzio Festa


Se giugno quest'anno si chiude col magnifico sublime e impareggiabile omaggio alla nostra poetessa Assunta Finiguerra, insomma con la conclusione del Premio "Isabella Morra" 2016 dedicato proprio all'autrice di San Fele, con riconoscimento della critica tra l'altro assegnato alla romana Annamaria Feramosca firmataria di "Piccolamara (In lode di Assunta Finiguerra)", qualche mese prima in libreria arrivavano già gli inediti d'Assunta. "U vizzje a morte", infatti, ha data che porta qualche mese prima della manifestazione, ed è un'opera davvero imperdibile sia per i 'cultori' della poetessa, sia per chi "in genere" ama la vera poesia, i versi puri. Questo libro di poesie di Assunta Finiguerra, in dialetto sanfelese, articolato in due sezioni, riunisce parte degli inediti dal 1997 al 2003 e parte di quelli dal 2004, anno della scoperta della malattia, al 2009, anno della morte. Le poesie sono raggruppate in raccolte come le aveva suddivise l'autrice. La scelta dei testi da pubblicare è basata essenzialmente su un criterio estetico: quello di privilegiare, nell'ambito della visione e dello stile inimitabile e personalissimo della poetessa, i caratteri di coerenza e di omogeneità nell'ideazione e nella scrittura. I libri di Finiguerra c'avevano già insegnato tanto. Quando, poi, avemmo l'onore qualche anno fa d'averla a Matera nella giuria del Premio letterario "La città dei Sassi" organizzato da associazione e rivista Liberalia, come evocato fra l'altro tanto da Pagan quanto da Zoppi nelle loro righe di premessa e presentazione del volume capimmo l'umanità d'una poetessa in lotta e in quiete con la morte. La voglia di comunicazione. Di relazione. Delle descrizioni di descrizioni di Zoppi, poi, c'aiutano a sperimentare nel presente quel rapporto fra il luogo natio e la poetica d'Assunta: "(...) San Fele aveva anche instillato nel suo animo quel senso di pauroso, di magico, di superstizioso, che la induceva a guardare sotto il letto la sera, prima di coricarsi, per accertarsi che nnon vi fossero nascoste strane presenze pronte a turbarle il sonno. E ancora paesane e tipicamente meridionali erano quelle pratiche stregonesche che la notte tra il 23 e il 24 giugno, festa di San Giovanni, la spingevano a mettere fuori dalla finestra un bicchiere colmo a metà di acqua in cui aveva fatto cadere l'albume di un uovo o di un piccolo cardo bruciacchiato alla base". Quando ho chiuso a stampa il saggio breve "Lucania senza santi. Narrativa e poesia della Basilicata", disconoscevo dell'esistenza di questa mole custodita di materiale allora inedito. Adesso,  per fortuna, d'una delle maggiori penne dialettali della letteratura italiana possiamo sapere perfino quando e quanto "Me stache allunduananne da stu munne / cu na rassegnazione ca spavende / me sembre quase n'àlete de viende / te daje piacere cume na carezze // e guarde ndò giuardine u cerasiedde / ca me vestije de janghe a primavere / re luatte / appene munde ndò becchiere / è nu recorde sembe cchiù lunduane". In quel latte di ricordi e attaccamenti per esigenza alla fede, Finiguerra finge di rassegnarsi. E noi, mai dovremmo rassegnarci invece a scordarla.

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