Se giugno quest'anno si chiude col magnifico sublime e
impareggiabile omaggio alla nostra poetessa Assunta Finiguerra, insomma con la
conclusione del Premio "Isabella Morra" 2016 dedicato proprio
all'autrice di San Fele, con riconoscimento della critica tra l'altro assegnato
alla romana Annamaria Feramosca firmataria di "Piccolamara (In lode di Assunta
Finiguerra)", qualche mese prima in libreria arrivavano già gli inediti
d'Assunta. "U vizzje a morte", infatti, ha data che porta qualche
mese prima della manifestazione, ed è un'opera davvero imperdibile sia per i
'cultori' della poetessa, sia per chi "in genere" ama la vera poesia,
i versi puri. Questo libro di poesie di Assunta Finiguerra, in dialetto
sanfelese, articolato in due sezioni, riunisce parte degli inediti dal 1997 al
2003 e parte di quelli dal 2004, anno della scoperta della malattia, al 2009,
anno della morte. Le poesie sono raggruppate in raccolte come le aveva
suddivise l'autrice. La scelta dei testi da pubblicare è basata essenzialmente
su un criterio estetico: quello di privilegiare, nell'ambito della visione e
dello stile inimitabile e personalissimo della poetessa, i caratteri di
coerenza e di omogeneità nell'ideazione e nella scrittura. I libri di
Finiguerra c'avevano già insegnato tanto. Quando, poi, avemmo l'onore qualche
anno fa d'averla a Matera nella giuria del Premio letterario "La città dei
Sassi" organizzato da associazione e rivista Liberalia, come evocato fra
l'altro tanto da Pagan quanto da Zoppi nelle loro righe di premessa e
presentazione del volume capimmo l'umanità d'una poetessa in lotta e in quiete
con la morte. La voglia di comunicazione. Di relazione. Delle descrizioni di
descrizioni di Zoppi, poi, c'aiutano a sperimentare nel presente quel rapporto
fra il luogo natio e la poetica d'Assunta: "(...) San Fele aveva anche
instillato nel suo animo quel senso di pauroso, di magico, di superstizioso,
che la induceva a guardare sotto il letto la sera, prima di coricarsi, per
accertarsi che nnon vi fossero nascoste strane presenze pronte a turbarle il
sonno. E ancora paesane e tipicamente meridionali erano quelle pratiche
stregonesche che la notte tra il 23 e il 24 giugno, festa di San Giovanni, la
spingevano a mettere fuori dalla finestra un bicchiere colmo a metà di acqua in
cui aveva fatto cadere l'albume di un uovo o di un piccolo cardo bruciacchiato
alla base". Quando ho chiuso a stampa il saggio breve "Lucania senza
santi. Narrativa e poesia della Basilicata", disconoscevo dell'esistenza
di questa mole custodita di materiale allora inedito. Adesso, per fortuna, d'una delle maggiori penne
dialettali della letteratura italiana possiamo sapere perfino quando e quanto
"Me stache allunduananne da stu munne / cu na rassegnazione ca spavende /
me sembre quase n'àlete de viende / te daje piacere cume na carezze // e guarde
ndò giuardine u cerasiedde / ca me vestije de janghe a primavere / re luatte /
appene munde ndò becchiere / è nu recorde sembe cchiù lunduane". In quel
latte di ricordi e attaccamenti per esigenza alla fede, Finiguerra finge di
rassegnarsi. E noi, mai dovremmo rassegnarci invece a scordarla.
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