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venerdì 10 ottobre 2014

Il Mondo al tempo della Bioeconomia di Stefano D'Almo



“E’ giunto il tempo di cambiare, di rivolgerci a un modello di sviluppo competitivo che consenta ai produttori di offrire il meglio al minor prezzo possibile introducendo innovazioni che generano benefici molteplici, non solo maggiori profitti” . Questo il pensiero di Gunter Pauli, fondatore della Blue Economy e uno dei guru del nuovo pensiero economico mondiale, invitato dalle Nazioni Unite nel 1994 a formulare ipotesi su nuovi modelli di business per il futuro. Ora, a distanza di vent’anni è sempre più chiaro che si possono accrescere i redditi creando nuovi posti di lavoro e restare ciononostante competitivi sui mercati globali. La chiave per il successo è – secondo Pauli – evolvere da un core business basato su una specifica competenza, ad una raggiera di attività capaci di generare molteplici benefici per le attività imprenditoriali e la società.
E la Bioeconomia? Sarà meglio mandare a memoria questa espressione perché, con ogni probabilità, diventerà un termine “chiave” del nostro futuro. Ma cosa significa? Secondo la Commissione europea la bioeconomia comprende la produzione di risorse biologiche rinnovabili e la loro conversione in cibo, mangimi, prodotti a base biologica e bioenergia. Pertanto include agricoltura, foreste, pesca, produzione di cibo e di cellulosa per la carta, così come materie prime per l'industria chimica, quella biotecnologica e dell'energia. I diversi settori della bioeconomia sono caratterizzati da un forte potenziale innovativo e dall’utilizzo di una vasta gamma di saperi scientifici (scienze della vita, agronomia, ecologia, scienza dell’alimentazione e scienze sociali) e da tecnologie industriali e combinatorie come le bio e le nano tecnologie, le tecnologie dell’informazione (ICT) e quelle ingegneristiche, insieme alle competenze locali. Il tutto in un’ottica sistemica fondata sulla forte integrazione dei vari soggetti (imprese, centri di ricerca e università, ambiente e società), e qui sta la grande novità e il suo reale valore aggiunto.
Di questi stimolanti temi si è parlato l'8 e il 9 ottobre 2014 Torino, nel corso della Bioeconomy Stakeholder Conference “To be 2014, From sectors to system, from concept to reality”, organizzato dal Paese alla presidenza pro tempore dell’Unione Europeo, in questo caso l’Italia, che fa seguito ai due incontri tenutisi a Copenhagen nel 2012 e a Dublino nel 2013. Apertura dei lavori affidata al Segretario di Stato del MIUR, Gabriele Toccafondi e al Commissario UE alla Ricerca e Innovazione Maire Geoghegan-Quinn. Tra i partecipanti, oltre allo stesso Gunter Pauli, rappresentanti di associazioni di cittadini, manager di industrie biochimiche, di università di tutto il mondo, tra cui ovviamente il Politecnico di Torino. Presenti, inoltre, delegati di 34 Paesi diversi.
“Questa di Torino è la manifestazione più importante a livello europeo” spiega il professor Fabio Fava, docente di Biotecnologie industriali all’Università di Bologna e Rappresentante nazionale per la Bioeconomia nei comitati di Horizon 2020 della Commissione Europea “ Vi si incontrano scienziati, rappresentanti dei governi europei nazionali e locali, associazioni di consumatori, produttori di materiali. E’ un momento molto importante per rafforzare la bioeconomia in Europa, un settore che muove 2.000 miliardi di euro e dà lavoro a 22 milioni di addetti (dati 2012).  La bioeconomia è parte della Green economy. Essa, come detto poco più su, comprende un insieme articolato di settori: agricoltura, produzione industriale, allevamento e acquacoltura, alimentazione, silvicoltura, bioraffinerie (processo di biomasse per la produzione di composti chimici e combustibili) ma anche sottoprodotti agroalimentari come fonti supplementari di biomasse. E nel nostro Paese, terzo in EU dopo Germania e Francia con un turn over di 133 miliardi di € l’anno e un comparto agricolo che vale 28 miliardi di € e 600.000 posti di lavoro, ma dove sono stati censiti 1,5 milioni di ettari di terra incolta, vi sarebbero considerevoli margini di miglioramento. Il punto centrale è l’approccio sistemico, che consente di capire i problemi dei singoli partner e lavorare affinché si integrino. A tale scopo è indispensabile la comunicazione: con il pubblico, con i policy makers e i responsabili delle politiche regionali. Vi sono ovviamente dei problemi concettuali da risolvere insieme agli altri attori coinvolti come, ad esempio, gli OGM, per fare luce sui quali la Commissione EU commissiona studi e ricerche ormai da decenni. A tale fine in Italia, un paio d’anni fa, abbiamo lanciato per iniziativa del MIUR, dei “cluster tecnologici” che si sono rivelati molto efficaci, una palestra decisamente interessante per l’evoluzione del pensiero scientifico, la precondizione affinché un approccio sistemico possa esprimere tutte le sue virtualmente dirompenti potenzialità”. (nella foto il Dott. Fabio Fava)

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