Francesco, detto Veleno, timido e
solitario, fino ai quattordici anni è vissuto immaginando vite eroiche e
ammirando i coetanei più intraprendenti. Il suo universo quotidiano, nel paese
pugliese dove vive, è quello della scuola, con regole e muri che sembrano fatti
per essere invalicabili, non certo per nascondere gioie proibite. Fino
all’incontro con Donatella Telesca, professoressa di Educazione tecnica. Lei ha
il doppio degli anni di Veleno, eppure veste in modo più simile a lui e ai suoi
amici Mimmo e Nappi che alle altre insegnanti. Ha la pelle candida, ma nasconde
un’ombra che agisce come una calamita sui suoi giovani allievi, siede tra i
banchi, ascolta i ragazzi, li guarda come nessuno ha mai fatto prima. Nasce
un’attrazione irresistibile, destinata a essere scoperta nel clamore dello
scandalo. Veleno scopre allora una solitudine più profonda, l’isolamento di chi
supera la linea d’ombra dei sentimenti leciti, e contro la famiglia, contro la
norma che gli impedisce di amare, costruisce il suo onore, il futuro, la sua
legge che non umilia né separa. Veleno saprà aspettare, costruirà tutto intorno
al silenzio dell’attesa, e con gli occhi rinnovati dal desiderio si accorgerà
di essere circondato da amori che sono tali proprio perché proibiti... Scritto
per frammenti affilati come gli spigoli d’ombra che si stagliano nel sole del
Sud, rapsodico ed emozionante come la memoria di una stagione perduta, Il libro
dell’amore proibito è un romanzo sul desiderio, sugli amori impossibili e la
cieca, folle fedeltà a un sentimento che non ha barriere
MARIO DESIATI (1977), è cresciuto
a Martina Franca e vive a Roma. Ha pubblicato la raccolta di poesie Le luci
gialle della contraerea (Lietocolle 2004, Premio Viareggio per l'opera prima).
Come narratore ha esordito nel 2003 con Neppure quando è notte (peQuod) e ha
pubblicato in seguito, con Mondadori, Vita precaria e amore eterno (2006), Il
paese delle spose infelici (2008) e Ternitti (2011, finalista Premio Strega).
COLLANA Omnibus italiani
PAGINE 200
PREZZO 17,50 euro
Un estratto - “Se voi della
giuria non ritenete le vostre passioni al di sopra di ogni divieto, vuol dire
che non avete mai amato. Non avevo l’età per simili certezze quando, il primo
giorno di terza media, fui invitato dal professore di Storia e Geografia a
sedermi nel primo banco assieme al pluriripetente e scapestrato Cosimo Nappi.
Da tale trascurabile azione sarebbe poi scaturita una serie di eventi
conflagrati nello scandalo cittadino di tutti gli anni a seguire. Per
raccontarvelo sono venuto nel luogo delle mie preghiere, laddove mi arrovello
su bellezza e desiderio. Quando sono in imbarazzo faccio un gioco
d’immaginazione e penso di stare tra i banchi di una chiesetta, un posto in cui
m’inebrio di una delle tante forme d’amore che ho imparato a scoprire, nascoste
agli occhi di voi giurati, uomini retti immuni da ogni scandalo, e forse
passione. In questo rifugio torna incessante un insegnamento che serbo come un
gioiello antico tramandato dai miei antenati. Quando ero bambino restavo a
lungo da solo. Una volta, eravamo nei nostri trulli, mia nonna Comasia, dopo
avermi condotto innanzi a un muro, mi confidò che se volevo conoscere fino in
fondo cos’era la gioia avrei dovuto trovare un ostacolo da scavalcare. Ero
cresciuto circondato da mura, chiuso in casa o nel recinto di pietre a secco
della campagna in cui vivevamo durante l’estate. Avevo imparato a farmele
amiche. Amavo i muri che dividevano la vigna dalla strada. Costruiti pietra su
pietra senza malta o stucco, erano mondi a parte perché tra gli interstizi
vivevano bisce, lucertole, scoiattoli, porcospini, colonie di formiche che
disegnavano percorsi insondabili, rovi di more e cespugli di corbezzoli. E così
quel muretto a secco alto un metro e mezzo era la vita. Il segreto più
importante che mia nonna rivelò indicando l’erba rampicante che da terra
risaliva lungo la pariete era proprio lì davanti ai miei occhi. E, con
l’autenticità di certi insegnamenti che arrivano a segno quando sono impartiti
senza piena consapevolezza, disse: «Prendi la gioia più grande, l’amore.
L’amore è come l’edera, ha bisogno di un muro per crescere». La via nera di
pietra lavica sale verso il porticato, sulla sinistra uno spigolo di calce
bianca sorvegliato da un lampione di ferro battuto. La porticina somiglia a una
bocca e la facciata a un tetragono monolite dell’Isola di Pasqua. Varcato
l’ingresso della chiesa, nella navata spicca la sobria solennità dei semplici:
stucchi, noce e incenso. I banchi smaltati scintillano, l’altare di pietra
d’Apricena acceca, un pulpito di legno nasconde una scaletta. Percorrendola si
arriva alla postazione dell’organo elettrico. La chiesa è dedicata
all’Addolorata. Cercatela pure con lo sguardo, ma non troverete nessuna statua della
Madonna. È il tesoro, e come tutti i forzieri preziosi viene tenuto lontano da
occhi indiscreti e soprattutto infedeli. L’Addolorata è una cappella di
identiche dimensioni della chiesa, un perfetto doppione costruito pietra su
pietra, sedile su sedile, altare su altare, e addirittura tabernacolo su
tabernacolo. Vi si accede da una scala segreta dietro una parete mobile, con
gradini così ripidi da doversi aiutare con le mani. Chi mi precede assume la
posizione di un alpinista o uno scimmione, non di un fedele. Il corrimano pare
una pertica, il soffitto basso incombe con la gravità delle caverne. La
cappella al piano superiore è azzurra, forse chi l’ha dipinta ha pensato che
fosse meno distante dal cielo. I banchi sono verni ciati d’azzurro e anche il
soffitto è azzurro, come il mozzetto – il copricapo che indossano i confratelli
nelle lunghe, estenuanti processioni. L’altare è bianco, una lastra di
superficie candida, effetto ghiaccio, posata su un tronco di legno glitterato.
Accanto all’altare, una grande teca di legno, ancora azzurra, e lì Maria
Addolorata. È una donna sui venticinque anni, non sembra addolorata, ma altera,
una smorfia sulle labbra, lo sguardo avanti, l’acconciatura del velo nero che
si articola in una dozzina di pieghe, i pizzi e i broccati che avvolgono le
spalle e scendono sul busto e sulle gambe con l’esuberanza di una colata d’oro
fuso. Indossa il mantello viola che richiama il tempo ordinario dell’anno
ecclesiastico. Ogni mese due uomini salgono nella chiesa azzurra, preparano la
celebrazione della domenica successiva, che si svolgerà a piano terra. La messa
qui è un rito speciale, partecipano soltanto i maschi più vigorosi della
congrega, gli stessi dotati della forza e resistenza necessarie per trasportare
la statua della Madonna lungo la processione al termine della Quaresima, che
dura due giorni. Sono votati ai Dolori di Maria, come dichiara il decreto
istitutivo dell’oratorio. I due uomini che si stanno per occupare della
manutenzione della statua sono entrambi volontari di un’associazione di
genieri. Hanno con sé una valigia, da lì estraggono robe che profumano di
sapone e pulito, le depongono sulla prima panca sotto l’altare. Aprono il chiavistello
di ferro della teca e, mentre la portafinestra si spalanca con un cigolio,
trascinano fuori Maria Addolorata per spogliarla. Compiono i gesti con
lentezza, immettono in ogni movimento una precisione che per loro è devozione.
Il mantello, i broccati d’oro, i pizzi, l’abito cadono giù, la statua resta
nuda, sembra il manichino di un supermercato, ha perduto il fascino e lo
sguardo altero. Il miracolo della statua è nei vestiti che indossa. Il
sacerdote ha fatto irruzione, «No» li rimprovera. «Vestitela abbasc’» comanda
ai confratelli senza rivolgere uno sguardo alla Regina, intimorito di poterla
vedere senza abiti. I due uomini sono tarchiati, rubizzi. Stavano al
radiocomando dell’Italsider, guidavano il carroponte, sovrintendevano agli
spostamenti all’interno della fabbrica, hanno visto alcuni loro amici tranciati
dalle lame d’acciaio nella notte. Si sono votati in tempo all’amore mariano,
prima che calasse la lama della sorte. Affidarsi all’Addolorata per loro è una
religione, dedicarsi alla cura di una statua di legno e dei suoi vestiti. La
pregano, si segnano e portano quei vestiti impregnati di umido, incenso,
polvere alla moglie o alla madre. Se la messa è abbasc’, a loro spetta un
compito che pochissimi uomini riescono a portare a termine. Produce
inquietudine e un piccolo, segreto piacere da non condividere: il senso di
responsabilità, compiere un gesto che nessuno deve conoscere. La Madonna è
troppo alta per passare per le scale, e i genieri la spostano al centro della
chiesa azzurra, nello spazio tra l’altare e i banchi, uno le tiene ferme le
gambe, l’altro l’avvolge con le braccia, come volesse danzare con lei. Il
geniere più anziano vive da solo, si è consacrato a Maria, l’unica donna della
sua vita. La sua dedizione sfocia quasi nella mania che hanno i solitari, i
puri di cuore, i pazzi. Le dà un bacio alle ginocchia, poi l’altro spinge il
corpo. S’avverte un colpo secco, il giro in senso antiorario, la statua che stride.
L’uomo che tiene in basso le gambe suda, abbracciato al mistero che nei giorni
della settimana santa percorre la città e fa segnare migliaia di uomini e
donne. L’uomo consacrato a Maria sta facendo girare il busto dal bacino, che
ruota fino a svitarsi. I respiri dei due maschi si fanno concitati e pesanti,
il fiato caldo della fatica è come se arrivasse sotto forma di vapore alle mie
narici, mi scalda i capillari del viso. Maria Addolorata è divisa in due,
smontata, il meccanismo carrucolare in mostra, un dente di legno che spunta dal
grembo aperto. L’uomo in ginocchio, innanzi alle gambe di Maria, non è
consacrato alla Madonna come l’altro confratello anziano, ha una moglie, una
sorella e dei nipoti. Uno sono io, assisto alla vestizione e alla scomposizione
della Maria Vergine Addolorata da anni. Sin dalla prima volta, quando ero un
bambino, ho imparato che esistono amori impossibili, ma talmente grandi e
innominabili che non si possono spiegare. L’uomo tremante davanti a Maria
Vergine Addolorata, che ogni anno nelle feste di devozione si veste con un
sacco bianco e la mozzetta azzurra, la corda stretta in vita, è innamorato di
una statua, ma non potrà mai raccontarlo a nessuno. Deve accontentarsi di metterlo
in scena durante la settimana santa.”
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