È raro, molto raro, che rilegga
un libro. Ché già una vita intera non basta per leggere tutto quel che meriterebbe
d’esser letto… Ma quest’estate (ormai quasi andata) ho ripreso qualche vecchia
lettura e qualche classico (che non guasta mai). Non vi dirò di Piero Chiara e
di alcune sue pagine che ho riaperto, né d’altri libri spolverati, ma di un
classico che ho letto dopo tanto che volevo farlo: “Il grande Gatsby” di
Francis Scott Fitzgerald. Perché? Perché parlarne ancora? Dopo tutta
l’attenzione di cui ha già goduto, e dopo tutte le “scritture” che ne hanno
sviscerato il corpo e l’anima, e dopo tutti i film? Potrei rispondere: “per il
mio gusto”! Oppure: “per la sua attualità”! O ancora: “perché a febbraio
dell’anno che verrà ci sarà la prima del remake del film già interpretato (nel
1974) da Robert Redford e Mia Farrow”! Confesso che sono curioso di vedere la
pellicola in 3D di Baz Luhrman e scoprire Leonardo DiCaprio che ci prova con
Carey Mulligan, ma –invero- la ragione per la quale vado spendendo qualche
parola per questo libro del 1925 è che mi sento più padre e con questa maggiore
consapevolezza guardo i miei figli e, nel contempo, sento lo sguardo di mio
padre. Sorvolerò su molto, dunque, e lascerò a chi ne avrà voglia
l’approfondimento sugli anni venti, su quel che hanno significato gli otto
milioni e mezzo di morti e gli oltre venti milioni di feriti irreversibilmente
contati all’indomani della prima guerra mondiale, sulla voglia di svago cercata
e trovata dai giovani, sull’emancipazione dagli archetipi preesistenti per
abbracciare la liberazione dell’individuo, sul boom economico e dei mass media
(iniziato con la radio), sull’incredibile mutamento delle arti e, in una
parola, sulle cause che hanno aperto al mondo l’ingresso nell’era moderna.
Sorvolerò sulla rovina del 1929. E pure sulla degenerazione del sogno
sorvolerò. Ascolterò senza nostalgia il jazz del mitico Duke Ellington, farò un
passo di fox-trot, guarderò belle gambe saltellare nel charleston, e cercherò
di struggervi dentro (soltanto un po’) con un tango. Soltanto musica.
Nient’altro. Ché tutto quel che ho cennato –tutt’intero- sta ne “Il grande
Gatsby”. Io vi dirò altro. Poc’altro. Che riguarda oggi. E, forse, lo stesso
disfacimento d’allora. La mia è stata un’infanzia serena… grazie (anche) a mio
padre. E poi ho (più di prima) piena coscienza dell’importanza di mio padre per
la mia scrittura… Non è un caso che l’incipit de “Il grande Gatsby” scomodi
questo rapporto genitoriale: “Negli anni più vulnerabili della giovinezza, mi
padre mi diede un consiglio che non mi è mai più uscito di mente. mi disse . Non disse altro, ma
eravamo sempre stati insolitamente comunicativi nonostante il nostro riserbo, e
capii che voleva dire molto più di questo. Perciò ho la tendenza a evitare ogni
giudizio, un’abitudine che oltre a rivelarmi molti caratteri strani mi ha anche
reso vittima di non pochi scocciatori inveterati”. Non dirò nulla, quindi, che
abbia a che fare con il ruolo paterno nell’educazione né con altro che non sia
quel che ho appena espresso, ossia qualcosa di molto particolare che, a ben
vedere, può valere per pochi, per chi –come me- scrive… Saranno stati gli
ultimi avvenimenti, le recenti esperienze, questo (e qualche altro) libro, ma
credo che qualunque scrittura (e, soprattutto, il romanzo) non possa
prescindere da quel ch’è stato (e/o da quel ch’è) il rapporto tra chi scrive e
suo padre. Comunque. Nel bene e nel male. Ovvio. E senza distinzione (ultronea)
di scrittura maschile e femminile. Senza scomodare scienza alcuna. È una
consapevolezza iniziata con una sensazione e diventata sempre più forte nel
tempo. Non so dire per quale ragione precisa. Se una ragione precisa c’è. C’è
che questo percepisco. Non mi va di indagare. Per me è così. E mi fido. Ché
“Ognuno pensa di possedere almeno una delle virtù cardinali, anche la più
piccola, e questa è la mia: sono una delle poche persone oneste che io abbia
mai conosciuto”. Semmai ho scritto qualcosa di degno d’esser ricordato, semmai
ancora dovesse accadermi di farlo, è e sarà perché c’è il respiro di mio padre…
Credo che il sogno di ogni scrittore sia quello di non finire mai di scrivere
(…) e di pubblicare un solo libro, l’unico che non finirà al macero, quello che
non ha temperatura sino a allora conosciuta. Ché “Non c’è fuoco né gelo tale da
sfidare ciò che un uomo può accumulare nel proprio cuore”. Jay Gatsby (che pure
non ho amato…) è stato tutto questo: un uomo sbagliato in un mondo sbagliato
capace di regalare in un sorriso “l’intero eterno mondo per un attimo”.
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