Sergio Marchionne è uno dei personaggi più importanti della
televisione finanziara, un soggetto fondamentale della fiction soprattutto
economico-finanziaria italiana; una personalità, va detto per correttezza, che
fa parte però del palinsesto mondiale. Salvatore Cannavò, giornalista del Fatto
Quotidiano e con una lunga esperienza di cronista a Liberazione, ha dato alle
stampe un libro che si basa molto sulla sua esperienza professionale,
"C'era una volta la Fiat",
dove il sottotilo che striza l'occhio, come si dice, al marketing è:
"Tutto quello che l'azienda non vuole che sappiate". Un libro che
guarda nuovamente alle strategie appunto del Marchionne in seno ai resti degli
Agnelli e, fortunatamente, non appoggiato alla tipologia descrittiva del
'manager col poolover' - a differenza di molti suoi colleghi innanzitutto.
L'agile e necessario testo, in tutto lo svolgimento del primo capitolo "La
vittima Marchionne", infatti, illustra come prima cosa gli scenari
immaginati dall'ad 'svizzero'. Che significa, in pratica, Fiat oggi sui mercati
mondiali: specie in Cina, Usa, Brasile. Indugiando sul dato, in primis, che la Fiat guidata da Sergio
Marchionne sul mercato cinese vale davvero poco, mentre vorrebbe, cosa
d'altronde sempre più visibile, spostarsi di braccia e cervello nella terra che
il presidente Obama le ha fatto ben annusare. Le righe di Cannavò sono stampate
dopo il saggio inchiesta di Fabio Sebastiani, penna da "cronista
sindacale" anche questa venuta dal giornale che fu di Curzi e Sansonetti,
"Officina Italia. La Fiat
secondo Sergio Marchionne" (Altrimedia Edizioni, 2011); seguono "Ci
volevano con la terza media. Storia dell'operaio che ha sconfitto
Marchionne", (Editori Internazionali Riuniti, 2011) dell'operaio lucano
Giovanni Barozzino, uno dei tre lincenziati di Melfi; succedono a
"Vestivano alla marinara. Storia della Fiat dalle origini a
Marchionne", (Editori Internazionali Riuniti, 2012), di Antonio Sciotto.
Quindi ad allargare il quadro della situazione e quasi fare attualità. Se su
questo tema, è possibile. Mentre gli stabilimenti italici, persino la Sata di Melfi in Basilicata,
tremano. Quando gli operai rotti e battuti nella lotta di classe vinta dai
padroni, oltre a subire altri continui licenziamenti e abituale soppressione di
diritti, devono sapere che la piemontese Fiat non per molto terrà - a far da
made in Italy - piene le palazzine dirigenziali dell'ex fortezza sabauda
(quest'estate non a caso per due volte gli impiegati di Torino hanno provato le
virtù della cassa integrazione). E "la forza lavoro" deve
scongiurare, ancora, riduzioni del personale e prossime dismissioni. Ché il
"nuovo" meccanismo di distruzione delle forze residue di lavoratrici
e lavoratori inaugurato a Pomigliano d'Arco non è sufficiente. Non è bastato a
Marchionne, insomma, togliere di mezzo l'incombenza Fiom. Nulla si può dar per
sott'inteso e per assicurato, pare ricordarci Cannavò, ma le prospettive sono
nere. L'autore quasi prova poi a chiedere: a questo punto si dovrebbe chiedere
il governo chiami un'azienda estera a tutelare la produzione italiana, se
l'azienda italiana per antonomasia va a tutelarsi fuori dall'ex Belpaese?
Quando il microfono per il racconto, invece, è dato agli opera sentiamo le vite
dai luoghi della lotta e del dolore, dal sacrificio. Il film che supera di
qualità la finzione e la finzione di qualità di cui in principio della lettura.
"Vent'anni di giornate uguali e faticose" a Mirafiori, per esempio.
Dove s'inizia a parlare sulla linea al termine del vero risveglio dalla
levataccia, a ore di distanza dalla sveglia. Nella chiusura di Termini Imerese.
Tantissime storie. Passando dalla battaglie dei tre di Basilicata sputati fuori
dalla Sata (pure se non è letto il rapporto di sudditanza tra Regione e Fiat).
Lavoratori che si "rompono" come i compagni che devono sopportare
sempre gli stessi movimenti e posizioni scomode. Altro che la bellezza dei
robot lanciata dai tg. Il massacro, d'altronde, ha un nome: Wcm. Un sistema che
toglie, per dire, il "camminare". Perché si deve risparmiare tempo.
Senza risparmiare chi lavora.
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