Circa tre anni fa, o qualcosa in
più, mi trovavo a guardare il programma CHE TEMPO CHE FA e Fazio invitò Enzo
Bianchi per parlare del suo libro IL PANE DI IERI (Einaudi Editore). Rimasi
così rapita del suo modo di parlare e di descrivere situazioni vissute di un
tempo che mi promisi di leggerlo appena fosse possibile. Avrei trovato anche nel libro quell’abilità
nel tradurre sentimenti e scandire bene ogni pensiero attraverso le parole.
Quando mi ritrovai a leggerlo mi sembrò di conoscere il frate da una vita.
Tutto ciò che considero semplice nella
mia vita prese un gusto eccezionale di verità condivisa, perché la pensavo come
lui, ed era riuscito a passarmi ogni sensazione. Se c’è una cosa che oggi non
si vede facilmente è una lettura che coinvolga tutti i sensi umani. Ho pensato
che è scritto con il cuore. E il fatto che sia un frate è soltanto una parentesi
di scelta personale che, probabilmente, non avrebbe influito, in nessun momento
della sua esistenza, su ciò che ha dentro. Da allora ho seguitato a comprare
tutte le sue opere, leggendo allo stesso modo, con trasporto ed entusiasmo,
deliziandomi in una conversazione silenziosa tra me e quel pacato signore che
si veste di tutte le righe dalle quali sono composte.
Qui vi riporto alcuni pezzi del
capitolo intitolato COME DIRE “TI VOGLIO BENE” che non servirebbe neanche
commentarlo: “Parliamo di cibo. Non se ne può fare a meno, soprattutto per noi
monferrini: il cibo è qualcosa per cui si ha cura, si deve “aver cura” perché è
proprio dal mangiare, dalla tavola che si ricevono lezioni e insegnamenti,
oltre che consolazioni. La tavola possiede o, meglio, possedeva un grande
magistero: oggi purtroppo per molti il cibo è diventato un carburante e la
tavola una mensola su cui posare ciò che si consuma. Si mangia qualsiasi cosa,
a qualsiasi ora, in qualsiasi modo, accanto e non “insieme” a chiunque e,
possibilmente, in fretta…
Invece per me la tavola è stata
sempre, e lo è tutt’ora, il luogo privilegiato per imparare, per ascoltare, per
umanizzarmi. Non è stato forse così fin dall’inizio della vicenda umana?”
E ancora: “Io amo cucinare, e lo
faccio in un grande silenzio perché cucinare significa pensare, essere
consapevoli, essere presenti e avere un senso forte della realtà e degli altri
per i quali si cucina. Cucinando si è obbligati a una unificazione di aspetti
molteplici: le leggi culinarie, le attese di chi mangerà, la conoscenza dei
prodotti, l’esperienza del fuoco, dell’acqua, del tempo… Operazione
straordinaria che rende intelligenti.”
A questo punto, chi mi conosce,
sa che ho esagerato nell’entusiasmo e nella gioia, ma sa anche che è così che
vivo tutti i giorni.
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