Scevra volutamente da informazioni sull’autore, mi sono accostata con
semplicità e purezza allo studio dei versi prodotti da un talento poetico, da
uno spirito dionisiaco. Così nella raccolta di versi Il cibo senza nome la mia
attenzione è stata carpita dal titolo, insolito per un libro di poesie ma
azzeccato per sensazioni che l’autore pare comunicarci. Versi profondi, non
convenzionali: ecco appunto la non convenzionalità di dare un nome, di definire
ciò che è “valido” per convenzione, da ciò che è “valido” per natura. Pertanto, il “cibo” può essere inteso come
nutrimento del corpo o dell’anima o come metafora della vita. La vita che è
distinta da Pasquale Vitagliano in “Dentro” e “Fuori”, in un perfetto
parallelismo psico-fisico, in cui il mondo interiore dell’autore corrisponde
con il mondo esteriore, che affascina, coinvolge, tormenta. La musicalità dei versi alternata da
allitterazioni, assonanze, pause, segna lo scorrere del tempo come un metronomo
che segue il proprio ritmo lento, andante, adagiandosi alla vita: «I libri non
letti, / gli abiti gettati sui letti / sono corpi di pelle, / la polvere dei
cuscini, la posa del caffè / ... / Assomiglia a se stessa / la vta che
raccontiamo / per sentirci diversi dai libri, / ... ». (p. 13). Una vita che
esecra un duttile congedo per un abbandono non voluto, non cercato, ma vissuto
nella certezza di una vita apocrifa, che non tramanda la propria verità palese,
ma «resta pensile / dentro una docile rete che pure / i denti non squarciano».
(vv. 14-18, p. 14). E ancora si avverte il vuoto, la solitudine di un uomo
senza la sua amata, così come il vuoto di una casa che non ha più odore, non
produce suoni: «non si sentono passi, / una casa rimessa, i cartoni, le scatole
di cibo senza nome». Nel cibo senza nome intravedo il deserto di un uomo senza
amore, una landa che si tinge d’assurdo, un naufrago privo della sua rosa dei
venti. Il vuoto incolmabile “Dentro” comporta un vivere, perpetuare la propria
vita nel dolore, nella solitudine con l’esterno “Fuori”, nella necessità di
raccontare, raccontarsi, comunicare all’altro con l’altro. Si imbatte nella
descrizione di una villa moderna scontrandosi poi con la visione prospettica di
un arco romano che va oltre il metafisico: «Che ci fa questa villa stagionale,
/ sembra una velina dentro il telegiornale, / a spezzare la visione prospettica
di / questo arco romano più metafisico». (p. 31). Pertanto, appare delinearsi
un senso di nausea di fronte alla gratuità delle cose, un uomo condannato ad
essere libero, tipico dell’esistenzialismo.
E leggendo i versi dell’autore, la mia memoria non può non richiamare il
pensiero sartriano. Sartre ribadisce che l’uomo una volta gettato nella vita, è
responsabile di tutto ciò che fa del progetto fondamentale, cioè della sua
vita. «E nessuno ha scuse: se si fallisce, si fallisce perchè si è scelto di
fare fallimento». La “nausea” di Sartre
non è lontana dall’“angoscia” di Heidgger così come il “tormento” di
Vitagliano. E si legge: «Mi vedo senza più fiato / nelle parole, vedo /
l’addome che vibra, la vena/ nel collo risuona di cose / non dette e tenute a
morire / nel ristagno dei saluti che/ ti devo giorno dopo giorno. / ... /
Attendo al terremoto / buono, buono, / immobile ed esausto, / in lista
d’attesa». (p. 41). Ed ancora si legge: «I rintocchi dei secondi / non
risuonano mai all’unisono ma / piovono ognuno per sè / sulle ore che passano
zitte. /... / Ed invece vorresti essere tu / ad aggiustare con gli occhi il
tempo / che non suona assieme a quello / che senti dentro questo dentro questo
punto angusto, senza un’ora che sia giusta». (p. 34). Infine, mi piace vedere
il disascondimento dell’essere nel linguaggio, autentico della poesia come
afferma Heidgger: «Il linguaggio è la casa dell’essere. In questa dimora. I
pensatori e i poeti sono i guardiani di questa dimora». Per tal motivo,
concludo richiamando i versi di Pasquale Vitagliano: «Anche se mi parli, tu
taci / il silenzio che hai dentro, / tu taci il vuoto prima del verbo, / tu
taci il pugno cieco del rumore. / Anche se mi parli, tu taci / il lessico dei
tuoi occhi, / tu taci le sillabe traverse, / tu taci i battiti podalici del
sangue. /Tu taci, anche se mi guardi. / Anche se taci, io ti ascolto. (p. 38).
Idilliaco e portentoso il potere della poesia nell’animo dell’umano.
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