«Disperso» è un essere umano che
risulta agli altri perduto, smarrito: qualcuno di cui si ignora la sorte, che
lascia con ciò nell'ansia e nel dubbio chi lo cerca e lo ama. E il «disperso»
per parte sua? È sperso e solo, e prova anche lui la stessa angoscia per la
forzata separazione? Oppure l'ha cercata ed è allora contento o indifferente ai
sentimenti degli altri? È poi perduto temporaneamente o per sempre? È vivo o
morto? L'essere «disperso» è per così dire l'attribuzione prevalente di una
qualità soggettiva, nel senso che essa sembrerebbe prima di tutto, e quasi
soltanto, riguardare colui o colei che cercano un altro essere umano perduto e
lo sentono appunto smarrito.
«Disperso» è però anche qualcosa
che viene sparpagliato e distrutto per insipienza, qualcosa che è consumato
nell'inutile sforzo di raggiungere uno scopo o una meta in realtà incerti,
sfuggenti, lontani. In un simile caso potremmo affermare che l'essere
«disperso» concerne l'attribuzione prevalente di una qualità oggettiva, nel
senso della dissipazione e dell'inettitudine squadernate davanti agli occhi di
tutti.
Tali significati molteplici
possono essere ritrovati nella raccolta intitolata proprio Il Disperso,
composta fra il 1970 e il 1974 ed edita a Milano, presso la Mondadori, nel 1976: l'opera
di esordio1 di Maurizio Cucchi, nato nella stessa Milano nel 1945. Nel poemetto
iniziale - La casa, gli estranei, i parenti prossimi - tutto sembra parlare di
una oggettiva condizione esistenziale di smarrimento. Da un lato, abbiamo gli
oggetti minimi del quotidiano, che appaiono più materiali svariati di un
inventario dall'apparenza comunque provvisoria, mai completabile, che piccole
cose davvero ordinate, da nido. ...
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