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venerdì 23 dicembre 2011

I pesci non chiudono gli occhi di Erri De Luca (Feltrinelli). Intervento di Vito Antonio Conte
























E qualcuno ha scritto che dei suoi libri può utilmente scrivere soltanto un poeta. È opinabile. Come (quasi) tutto ormai. Ma (chiunque l’abbia partorito) è un concetto meritevole di rispetto. Qualcun altro ha (anche) scritto che sono un poeta. Opinabile anche questo. Di più… Se così fosse potrei, per quel primo qualcuno, scrivere della scrittura di cui potrebbe occuparsi soltanto un poeta. La scrittura in parola è quella di Erri De Luca e, in particolare, quella de “I pesci non chiudono gli occhi” (Feltrinelli Editore, Collana: I Narratori, pagine 115, € 12,00). C’è che (poeta o grafomane o altro…) di De Luca molto ho letto e dei suoi libri in più occasioni ho scritto. Ché, prima di ogni altra cosa, mi nutro di letture. Poi viene la scrittura. Eventuale. Esclusivamente quando necessaria. Come in questo caso. Ché “Te lo dico una volta e già è troppo: sciacqua le mani a mare prima che metti il morso all’esca. Il pesce sente odore, scansa il boccone che viene da terra. E fai tale e quale a come vedi fare, senza aspettare uno che te lo dice. Sul mare non è come a scuola, non ci stanno professori. Ci sta il mare e ci stai tu. E il mare non insegna, il mare fa, con la maniera sua.”. Scrivo in italiano le sue frasi e tutte insieme. Quando le diceva erano scogli staccati e molte onde in mezzo. Le scrivo in italiano, senza l a sua voce a dirle nel dialetto sono spente. Iniziava spesso con la – e - . A scuola insegnano che non si comincia un periodo con una congiunzione. Per lui la frase era la continuazione di un’altra detta un’ora, un giorno prima. Parlava poco,  spazi larghi di silenzio mentre sbrigava le faccende di una barca a pesca. Per lui si trattava di un solo discorso, che ogni tanto si staccava di bocca con la – e - , lettera che a scriverla disegna un nodo. Ho imparato dalla sua voce a iniziare frasi con la congiunzione”. E anche per me è stato così. Per i miei versi (e non solo) che si aprono con la – e - . Anche se non l’ho mai detto. Ché certe cose non mi va di spiegarle. Specialmente se me lo chiedono. Come quella volta, dopo la mia prima pubblicazione, che un magistrato onorario mi disse: “…sì, però quelle – e -  all’inizio”. Era stato amico di Ercole Ugo D’Andrea, lui. Di versi e di poeti se ne intendeva! E ancora peggio mi va di ripeterle. Poi, come adesso, capita… e ne parlo. Ché ci vuole attenzione quando si ascolta. Ammesso che si abbia la capacità di ascoltare. E (anche) leggere un libro è ascoltare. È come ascoltare l’Autore che parla… Ci vuole attenzione. Quel che arriva a noi dipende dalla nostra attenzione. Sì, anche da altro. Sensibilità, per esempio. E ancora… Poi, ognuno ne fa quel che vuole… Ho avuto molti maestri. Sul mare. Come sulla terra. Nessuno era professore! Ché la vita e le cose della vita non s’insegnano. E non s’imparano mandando a memoria qualche nozione. Nessuna nozione contiene vita. Siccome la vita non contiene nozioni. La scuola, anche e soprattutto fuor d’ogni nozionismo, è altro. E può insegnare altro. E può essere utile a apprendere altro. Non vita. Un po’ a vivere, sì. Ma non vita! Le cose della vita s’imparano… traversando l’esistenza con tutti i sensi allerta e una tasca sempre vuota. E, semmai, si possono trasmettere. Mai insegnare. È tutta qui la differenza tra dire e fare. Erri De Luca conosce bene quella differenza. Come la diversità. Ché l’ha scelta. E praticata. Anche con le parole. Usate sempre con assoluta attenzione. De Luca le adopera dopo averle tenute nelle mani. Dopo essersele girate e rigirate tra i palmi. Dopo averne sentita l’esatta consistenza. Dopo averne soppesato lo specifico significato. Dopo averle annusate. Dopo averle trattenu te sulla lingua. Nella bocca. E delle parole usate conosce il corpo e l’anima. Quand’era decenne, nell’estate del ’60 sull’isola d’Ischia, la seconda stava molto stretta nel primo. Finché non è stato colpito dalla sorpresa del verbo “mantenere”, cioè fino a quando non ha incontrato qualcosa di talmente grande e sconosciuto da non riuscire a abbracciarla, a contenerla, a comprenderla. Finché non ha imparato che “mantenere è tenere per mano” e, dunque, quella novità, quella meravigliosa novità, non poteva tenerla col suo piccolo corpo, con le sue sole mani, ma era necessario che la sua mano ne stringesse un’altra. Lui, bambino che affrontava per la prima volta l’esistenza a doppia cifra (“a dieci anni l’età si scrive per la prima volta con due cifre”), scopre anche il contenuto del verbo “amare” tenendo (nella sua) la mano di una ragazzina del Nord (come lui in vacanza a Ischia). Assaporandone l’alterità. E la diversità. E il sangue. E il medicamento del suo sorriso sulle sue ferite dopo le mazzate volute cercate e trovate dei tre bulletti antagonisti... E quel suo corpo che si spacca e cresce. A contenere tutta quella vita nuova. Immagine –per altro verso- già vista in “Montedidio” nel corpo di don Rafaniello, il calzolaio ebreo che in fine mette le ali… E se in “Montedidio” si attraversa il passaggio dall’età adolescenziale a quella adulta, ne “I pesci non chiudono gli occhi” l’adolescenza comincia. E finisce con un bacio. Il romanzo s’apre con l’incipit sopra virgolettato e termina così: “Adesso e qui sta bene la parola fine, sorella minore di confine e di finestra chiusa”. In mezzo una gran bella narrazione. Parola dopo parola. Immagine dopo immagine. E, se volete, verso dopo verso.


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