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mercoledì 9 novembre 2011

LUCA TELESE – il blog
















“Sono nato a Cagliari, nel 1970 nel mitico anno dello scudetto, ma sono cresciuto a Roma, cuore giallo-rossoblu. Mia madre è sarda anche se è nata a Brescia, mio padre è di Torre Annunziata, anche se è fuggito a Roma e cancellato le sue tracce di accento, io sono romano anche se nato nell’Isola. Mia madre era l’ultima di cinque figli, e mi ha avuto tardi: così mio nonno materno, Erminio (che è morto a 96 anni) era nato nel 1887, e mi raccontava di quando vedeva dei pazzi, sull’altipiano della Giara, che pretendevano di imparare a volare. La madre di mio padre, invece, come in una pièce di Edoardo, era una trovatella che era stata adottata, fatto per l’epoca quasi incredibile, da una famiglia di nobiltà decaduta. Il mio nonno paterno, invece, all’anagrafe fu registrato con il curioso nome di “Felicio” (in luogo di “Felice”) per un errore dell’ufficiale comunale. Mio padre, perso da una raptus filologico avrebbe voluto tramandare il nome e il refuso, mia madre per fortuna si oppose. L’eredità onomastica, per sua disgrazia, è toccata al primo cugino che è venuto dopo di me (ma lo chiamiamo comunque Felice). Nonno Felicio è morto giovanissimo di crepacuore, e così papà si è ritrovato capofamiglia di altri otto fratelli a vent’anni, e una cospicua eredità di debiti da sopravvivenza per i successivi trenta. Il primo quartiere della mia vita è stato Monteverde, borghese e spensierato. Poi, un cataclisma familiare, ci ha paracadutato in estrema periferia, a Cinecittà est, un quartiere marziano dove avevo una stanzetta con vita su un pilone dell’alta tensione – bzzzz prima di addormentarsi, ogni sera – e il raccordo anulare. Andavo a scuola in centro, tutti i gironi, con la Metro. E facevo a botte con le vecchiette, al capolinea, per trovare un posto a sedere. Per questo ogni giono per dieci anni ho letto mezz’ora all’andata e al ritorno: praticamente uno stage di cui i figli di papà del centro non hanno potuto usufruire. Per arrivare alla metro di Anagnina traversavo un pratone di fango che d’inverno diventava una laguna: quando pioveva si poteva passare un quarto d’ora a togliersi il fango dalle suole a carrarmato sui gradini della metro. E poi ero come una cenerentola che alle 23,30 vedeva partire la sua ultima carrozza per tornare a casa. Dopo quell’ora c’era solo un autobus notturno da Termini al cui confronto “Noi ragazzi dello zoo di Berlino” pare un parco a tema della Disney. Dopodiché, attraversavo il prato correndo nel buio pesto come un pazzo, lo confesso, perchè non si vedeva nulla e mi cagavo sotto dalla paura. Quando tornavo mia madre dal letto chiedeva: “Ma non è che sei passato per il prato!?”. E io: “Nooooh….”. La mattina quando si svegliava andava a controllare la suola delel scarpe ed erano cazzi (ma tutti gli stage hanno un prezzo, nella vita). Fra le cose per cui vale la pena di vivere ci sono Laura e il nostro piccolo Enrico e la doccia rovente di prima mattina ascoltando la Sagra della primavera di Stravinsky. Amo i Beatles, soprattutto quelli di “Rubber soul”, Primo Levi e Pierpaolo Pasolini, il rock progressive dei vecchi Genesis, Peter Gabriel (all) e i fumetti – dai Bonelli al più grande di tutti i disegnatori: Magnus (il vero Maestro). Sulla cineteca dell’Arca, bisognerebbe portarsi: “Brazil” di Terry Gilliam, “A qualcuno piace caldo” di Billy Wilder, e “La vita è meravigliosa” di Frank Capra, “Ci eravamo tanto amati” di Ettore Scola e “Qualcuno volò sul nido del cuculo” di Milos Forman. Ho iniziato a fare il giornalista a “Il Messaggero”, correva l’anno 1989, cadeva il muro di Berlino e io vincevo uno stage di tre mesi legato a una colletta di beneficenza. Non avendo parenti nel mondo del giornalismo, per diventare professionista ci ho messo la bellezza di dodici anni. Nel mezzo ho fatto tutto quello che si può fare di precario nel mondo della comunicazione: dalla stampa di t-shirt, all’ufficio stampa (grande palestra), dalle agenzie (la Dire) alle collaborazioni a singhiozzo con le redazioni più scalcagnate – anni indimenticabili – fino a quelle più blasonate (da “Cominform” a “Il Foglio”, a “Panorama”, passando per “Capital” e “GQ”). Tendenzialmente scrivo di politica, spettacoli e varia umanità. Il primo che mi ha assunto come giornalista è stato Pietrangelo Buttafuoco quando era direttore de “Italia Settimanale” (per la cronaca, il periodico chiuse dopo soli quattro mesi). Dal 1996 al 1998 lavoro da free lance per “Sette”, l’inserto del giovedì del Corriere della sera, con Andrea Monti prima e Maria Luisa Agnese poi. Nel 1998 mi assumono, naturalmente a termine, a “Il Corriere della Sera” (al politico, nella redazione di Milano). Dal 1999 sono a “Il Giornale”, chiamato da Maurizio Belpietro come “redattore parlamentare”. Dal 2004 collaboro con “Vanity Fair” e, dal 2008, con “Panorama”. Da settembre 2009 sono al "Fatto Quotidiano". Insieme a Roberto Corradi sono anche l'animatore de Il Misfatto, il supplemento di satira de Il Fatto su cui di solito scrivo un corsivo contraffatto con la voce dei protagonisti della settimana. I primi passi nel fatato mondo della televisione, li ho mossi in una casereccia tv privata, “Teleambiente”, in cui potevo sbagliare tutto e imparare moltissimo: la tv era a Monteporzio Catone, a trenta chilometri da Roma, e ci andavo direttamente dalla Camera, in Vespa per montare i pezzi (ancora oggi mi chiedo come abbia potuto farlo, anche sotto i nubifragi per due anni). Poi ho fatto l’autore di “Chiambretti c’è” ( Rai Due, solo la prima edizione), “L’Alieno” (Italia uno), “Batti & ribatti” (Rai Uno), “Cronache Marziane” (Italia uno, solo la prima edizione) e nel 2006 ho condotto "Omnibus estate" (La7). Sono stato poi autore e conduttore di “Parenti Serpenti”, “Planet 430″ (su Planet, 2004 e 2005), e “Tetris” (su Raisat extra prima e su La7 ora). La banda di Tetris è cresciuta tutta insieme, all’insegna del “Surreality”: a furia di dire che volevamo fare proprio quello, ci siamo persino inventati un genere. Io sull’Auditel ho una mia teoria: non esiste. O meglio: non c’è più nulla di scientifico, sopratutto nei campioni piccoli. C’è però un omino addetto ad ogni programma, che disegna gli ascolti come si può dipingere un quadro, modulando la curva sui suoi gusti. Mi sono convinto che l’omino auditel di Tetris è un signore di una certa età, di buone letture, colto e simpatico, che ha deciso di regalarci qualcosa: spero vivamente che non lo mandino in pensione. Dal giugno del 2010, con Luisella Costamagna, conduco "In onda", talk show di approfondimento serale di La7.  Ho scritto quattro libri: “La lunga Marcia di Sergio Cofferati” (Sperling & Kupfer 2003), “Lula! Storia dell’uomo che vuole cambiare il Brasile e il mondo” (con Oliviero Dottorini – Castelvecchi 2003), "Cuori neri" (Sperling & Kupfer 2006) e "Qualcuno era comunista" (Sperling & Kupfer 2009). Sempre per la Sperling curo una collana a cui tengo molto, “Le radici del presente”, che si occupa di raccontare il passato prossimo dell’Italia, quello che per i giornali è vecchio, per i libri di storia è prematuro e per noi è interessante. In uno dei volumi, “Vite ribelli” (2007), ho pubblicato un racconto lungo sul terremoto di San Giuliano che considero una delle esperienze giornalisticamente più formative della mia vita. In una raccolta della Cairo Editore, “Ti amo ti ammazzo”, ho raccontato, a modo mio, la storia de “La Marchesa a luci rosse” (Anna Casati Stampa, ovviamente) uno di quei delitti che superano di gran lunga l’immaginazione. In un’altra antologia “Invito alla festa con delitto” (2004) è pubblicato “L’Uomo che voleva uccidere Palmiro T.”, il racconto più narrativo in cui mi sia mai cimentato”


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