“Sono nato a Cagliari, nel 1970
nel mitico anno dello scudetto, ma sono cresciuto a Roma, cuore
giallo-rossoblu. Mia madre è sarda anche se è nata a Brescia, mio padre è di
Torre Annunziata, anche se è fuggito a Roma e cancellato le sue tracce di
accento, io sono romano anche se nato nell’Isola. Mia madre era l’ultima di
cinque figli, e mi ha avuto tardi: così mio nonno materno, Erminio (che è morto
a 96 anni) era nato nel 1887, e mi raccontava di quando vedeva dei pazzi,
sull’altipiano della Giara, che pretendevano di imparare a volare. La madre di
mio padre, invece, come in una pièce di Edoardo, era una trovatella che era
stata adottata, fatto per l’epoca quasi incredibile, da una famiglia di nobiltà
decaduta. Il mio nonno paterno, invece, all’anagrafe fu registrato con il
curioso nome di “Felicio” (in luogo di “Felice”) per un errore dell’ufficiale
comunale. Mio padre, perso da una raptus filologico avrebbe voluto tramandare
il nome e il refuso, mia madre per fortuna si oppose. L’eredità onomastica, per
sua disgrazia, è toccata al primo cugino che è venuto dopo di me (ma lo
chiamiamo comunque Felice). Nonno Felicio è morto giovanissimo di crepacuore, e
così papà si è ritrovato capofamiglia di altri otto fratelli a vent’anni, e una
cospicua eredità di debiti da sopravvivenza per i successivi trenta. Il primo
quartiere della mia vita è stato Monteverde, borghese e spensierato. Poi, un
cataclisma familiare, ci ha paracadutato in estrema periferia, a Cinecittà est,
un quartiere marziano dove avevo una stanzetta con vita su un pilone dell’alta
tensione – bzzzz prima di addormentarsi, ogni sera – e il raccordo anulare.
Andavo a scuola in centro, tutti i gironi, con la Metro. E facevo a botte
con le vecchiette, al capolinea, per trovare un posto a sedere. Per questo ogni
giono per dieci anni ho letto mezz’ora all’andata e al ritorno: praticamente
uno stage di cui i figli di papà del centro non hanno potuto usufruire. Per
arrivare alla metro di Anagnina traversavo un pratone di fango che d’inverno
diventava una laguna: quando pioveva si poteva passare un quarto d’ora a
togliersi il fango dalle suole a carrarmato sui gradini della metro. E poi ero
come una cenerentola che alle 23,30 vedeva partire la sua ultima carrozza per
tornare a casa. Dopo quell’ora c’era solo un autobus notturno da Termini al cui
confronto “Noi ragazzi dello zoo di Berlino” pare un parco a tema della Disney.
Dopodiché, attraversavo il prato correndo nel buio pesto come un pazzo, lo
confesso, perchè non si vedeva nulla e mi cagavo sotto dalla paura. Quando
tornavo mia madre dal letto chiedeva: “Ma non è che sei passato per il
prato!?”. E io: “Nooooh….”. La mattina quando si svegliava andava a controllare
la suola delel scarpe ed erano cazzi (ma tutti gli stage hanno un prezzo, nella
vita). Fra le cose per cui vale la pena di vivere ci sono Laura e il nostro
piccolo Enrico e la doccia rovente di prima mattina ascoltando la Sagra della primavera di
Stravinsky. Amo i Beatles, soprattutto quelli di “Rubber soul”, Primo Levi e
Pierpaolo Pasolini, il rock progressive dei vecchi Genesis, Peter Gabriel (all)
e i fumetti – dai Bonelli al più grande di tutti i disegnatori: Magnus (il vero
Maestro). Sulla cineteca dell’Arca, bisognerebbe portarsi: “Brazil” di Terry
Gilliam, “A qualcuno piace caldo” di Billy Wilder, e “La vita è meravigliosa”
di Frank Capra, “Ci eravamo tanto amati” di Ettore Scola e “Qualcuno volò sul
nido del cuculo” di Milos Forman. Ho iniziato a fare il giornalista a “Il
Messaggero”, correva l’anno 1989, cadeva il muro di Berlino e io vincevo uno
stage di tre mesi legato a una colletta di beneficenza. Non avendo parenti nel
mondo del giornalismo, per diventare professionista ci ho messo la bellezza di
dodici anni. Nel mezzo ho fatto tutto quello che si può fare di precario nel
mondo della comunicazione: dalla stampa di t-shirt, all’ufficio stampa (grande
palestra), dalle agenzie (la Dire)
alle collaborazioni a singhiozzo con le redazioni più scalcagnate – anni
indimenticabili – fino a quelle più blasonate (da “Cominform” a “Il Foglio”, a
“Panorama”, passando per “Capital” e “GQ”). Tendenzialmente scrivo di politica,
spettacoli e varia umanità. Il primo che mi ha assunto come giornalista è stato
Pietrangelo Buttafuoco quando era direttore de “Italia Settimanale” (per la
cronaca, il periodico chiuse dopo soli quattro mesi). Dal 1996 al 1998 lavoro
da free lance per “Sette”, l’inserto del giovedì del Corriere della sera, con
Andrea Monti prima e Maria Luisa Agnese poi. Nel 1998 mi assumono,
naturalmente a termine, a “Il Corriere della Sera” (al politico, nella
redazione di Milano). Dal 1999 sono a “Il Giornale”, chiamato da Maurizio
Belpietro come “redattore parlamentare”. Dal 2004 collaboro con “Vanity Fair”
e, dal 2008, con “Panorama”. Da settembre 2009 sono al "Fatto
Quotidiano". Insieme a Roberto Corradi sono anche l'animatore de Il
Misfatto, il supplemento di satira de Il Fatto su cui di solito scrivo un
corsivo contraffatto con la voce dei protagonisti della settimana. I primi
passi nel fatato mondo della televisione, li ho mossi in una casereccia tv
privata, “Teleambiente”, in cui potevo sbagliare tutto e imparare moltissimo:
la tv era a Monteporzio Catone, a trenta chilometri da Roma, e ci andavo
direttamente dalla Camera, in Vespa per montare i pezzi (ancora oggi mi chiedo
come abbia potuto farlo, anche sotto i nubifragi per due anni). Poi ho fatto
l’autore di “Chiambretti c’è” ( Rai Due, solo la prima edizione), “L’Alieno”
(Italia uno), “Batti & ribatti” (Rai Uno), “Cronache Marziane” (Italia uno,
solo la prima edizione) e nel 2006 ho condotto "Omnibus estate"
(La7). Sono stato poi autore e conduttore di “Parenti Serpenti”, “Planet 430″
(su Planet, 2004 e 2005), e “Tetris” (su Raisat extra prima e su La7 ora). La
banda di Tetris è cresciuta tutta insieme, all’insegna del “Surreality”: a furia
di dire che volevamo fare proprio quello, ci siamo persino inventati un genere.
Io sull’Auditel ho una mia teoria: non esiste. O meglio: non c’è più nulla di
scientifico, sopratutto nei campioni piccoli. C’è però un omino addetto ad ogni
programma, che disegna gli ascolti come si può dipingere un quadro, modulando
la curva sui suoi gusti. Mi sono convinto che l’omino auditel di Tetris è un
signore di una certa età, di buone letture, colto e simpatico, che ha deciso di
regalarci qualcosa: spero vivamente che non lo mandino in pensione. Dal giugno
del 2010, con Luisella Costamagna, conduco "In onda", talk show di
approfondimento serale di La7. Ho
scritto quattro libri: “La lunga Marcia di Sergio Cofferati” (Sperling &
Kupfer 2003), “Lula! Storia dell’uomo che vuole cambiare il Brasile e il mondo”
(con Oliviero Dottorini – Castelvecchi 2003), "Cuori neri" (Sperling
& Kupfer 2006) e "Qualcuno era comunista" (Sperling & Kupfer
2009). Sempre per la Sperling
curo una collana a cui tengo molto, “Le radici del presente”, che si occupa di
raccontare il passato prossimo dell’Italia, quello che per i giornali è
vecchio, per i libri di storia è prematuro e per noi è interessante. In uno dei
volumi, “Vite ribelli” (2007), ho pubblicato un racconto lungo sul terremoto di
San Giuliano che considero una delle esperienze giornalisticamente più
formative della mia vita. In una raccolta della Cairo Editore, “Ti amo ti
ammazzo”, ho raccontato, a modo mio, la storia de “La Marchesa a luci rosse”
(Anna Casati Stampa, ovviamente) uno di quei delitti che superano di gran lunga
l’immaginazione. In un’altra antologia “Invito alla festa con delitto” (2004) è
pubblicato “L’Uomo che voleva uccidere Palmiro T.”, il racconto più narrativo
in cui mi sia mai cimentato”
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mercoledì 9 novembre 2011
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