Non puoi pretendere che ogni
mela sia perfetta. Dalla prefazione di William J. Harris – “Mondo senza fine, è
l’ottavo libro e la sezione finale dell’autobiografia di Hughes I wonder as I
Wander, le riflessioni dello scrittore sui progressisti anni trenta, sebbene il
libro sia stato scritto e pubblicato nei più conservatori anni cinquanta. E
senza dubbio è il mondo contrassegnato dalle varie sinistre quello in cui
Hughes vaga in quegli anni, dalla Russia Sovietica alla Spagna dilaniata dalla
guerra. In questo ultimo libro Hughes ci parla dei sei mesi passati in Spagna
nel 1937, durante la Guerra
civile. Ovviamente si trova sul fronte dei repubblicani, mentre questi sono impegnati
nella lotta contro i fascisti. Era andato in Spagna come reporter per i
quotidiani dei neri d’America. Dal momento che lui stesso era nero, e scriveva
per la stampa nera, ciò che lo interessa è diverso da quello che può colpire
l’attenzione di un bianco come Orwell o Hemingway. Ciò che a Hughes preme è la
situazione dei neri in Guerra, e in Spagna, per poter superare lo stereotipo
classico dell’uomo di colore. Molte di queste pagine ci parlano dei neri in
quanto singoli individui. “Tutti i neri, di qualsiasi nazionalità, con cui
parlavo, convenivano sul fatto che non ci fosse la minima traccia di un
pregiudizio relativo al colore in Spagna.” Sebbene i pregiudizi razziali siano
lasciati alle spalle, nella natia America, la questione del colore continua a
emergere mentre scopre i neri al potere, e i neri integrati coi bianchi nelle
Brigate Internazionali, dal momento che in America era arduo trovare neri al
potere e non ci sarebbe stata integrazione razziale nelle forze armate fino al
1948 – cioè il punto di riferimento era ancora Jim Crow, l’America segregata.
Un altro momento similmente interessante negli scritti autobiografici di Hughes
è quando, nei libri che precedono questo sulla Guerra spagnola, si mostra
maggiormente condiscendente nei confronti dell’esperimento sovietico rispetto all’amico,
il famoso scrittore britannico Arthur Koestler. Dal momento che Hughes è un
nero che viene dal profondo della società americana, non è così “velocemente disilluso
riguardo all’esperimento sovietico.” Ricorda che il grande Fredrick Douglass,
lo scrittore nero che nel diciannovesimo secolo aveva lottato contro la
schiavitù, quando aveva letto sui giornali degli schiavisti che “gli abolizionisti
erano tutti anarchici, contadini, diavoli e atei,” aveva continuato a pensare
che “l’abolizione – di qualsiasi altra cosa potesse essere – non potesse
dispiacere a uno schiavo.” Come Douglass, Hughes sente che l’Unione Sovietica,
qualsiasi sia la macchia di cui si possa coprire, può significare qualcosa per
chi è ai margini. Ma anche l’ottimista Hughes non sempre riesce a evitare di essere
critico riguardo ai repubblicani, che hanno troppe disparità di opinioni fra
loro per poter vincere la guerra. Ma il libro non parla solo della Guerra
Civile – ci parla anche della formazione di uno scrittore di colore in quei tempi,
un’impresa non facile, dal momento che la maggior parte del mondo letterario
era a lui impedito a causa del colore della pelle. “Questa è la storia di un
nero che vuole vivere con le proprie poesie e i propri racconti,” ha scritto
Hughes. E proprio in queste pagine sulla Spagna, ribadisce il concetto. “Nella
guerra civile in Spagna ero stato lì come scrittore, non come combattente. Ma
questo è ciò che volevo essere, uno scrittore, che registrava quello che vedeva,
e commentava, e traeva dalle proprie emozioni una propria personale
interpretazione.” Siccome era uno scrittore, andava in cerca di altri
scrittori, come il grande poeta nero cubano Nicolas Guillen, e poi tutti quelli
conosciuti a Madrid nell’Alianza, vero e proprio ritrovo di scrittori e
artisti. Hughes, viaggiatore del mondo, aveva una visione ben più ampia di
quella della maggior parte degli scrittori americani dell’epoca, e –
ironicamente – fu proprio a Madrid che conobbe il maggior numero di scrittori
bianchi americani. “Non essendomi dato di frequentare l’Algonquin di New York, non
ho mai incontrato molti scrittori famosi. Durante i mesi che passai in Spagna
feci conoscenza di più scrittori americani bianchi che in qualsiasi altro
periodo della mia vita.” Hughes scriveva in primo luogo per le masse nere, e su
di loro, ubbidendo alla massima del grande poeta spagnolo Garcia Lorca, che
aveva tradotto in inglese: “La poesia, la canzone, la pittura sono solo acqua
attinta dal pozzo del popolo, e dovrebbe essere restituita alla gente in una
coppa di bellezza in modo che possano berne e, nel bere, capire loro stessi.”
Questa è una perfetta descrizione di gran parte dell’opera di Hughes: egli
prende la voce popolare della propria gente e la trasforma in oro puro. Perciò
è abbastanza ironica la scena in cui legge le proprie poesie ai soldati sul
fronte e questi gli contestano la grammatica stentata dei personaggi dei suoi
versi, insistendo sul fatto che la gente di colore presente nelle Brigate abbia
una buona educazione. Ma questi neri ben educati non sono quelli che lui sta
cercando di ritrarre e raggiungere con le proprie poesie. A questo punto il
lettore bianco potrebbe chiedersi: “Se Hughes scrive principalmente di gente
nera per la gente nera, perché dovrebbe interessarmi?” In primo luogo perché
non conoscere l’opera di Hughes significherebbe perdersi un incredibile talento
e un grande piacere. Inoltre, perché la storia non finisce qui. A Parigi, nel
1937, nelle pagine che chiudono il libro, l’autore riflette: “Nel frattempo,
avevo allargato i miei interessi oltre Harlem e i neri d’America per includere tutti
i popoli di colore del mondo, anzi, tutti i popoli del mondo, dato che avevo a
che fare con loro come loro con me.”. Lo potete notare nel libro che state
tenendo in mano: Hughes è interessato a ritratte chiunque incontri e lo
interessi, senza fare differenze di colore di pelle o altro. Tuttavia, tutti
sono visti attraverso lo sguardo un po’ divertito di un complesso uomo
afro-americano. È uno dei doni che fa al lettore: lasciarci vedere il mondo dal
punto di vista di questo individuo afro-americano. Uno sguardo pieno. Hughes è
sincero, divertente anche. Attraverso i suoi occhi una nuova consapevolezza del
mondo può essere aggiunta alla saggezza del lettore. Anche se continuerà a
scrivere della gente povera di colore fino alla fine della propria vita, e
questo rimarrà il suo principale interesse, non mancherà di scrivere di altri argomenti,
dovunque lo porti la sua fantasia. Sul fronte, nel campo di battaglia di
Brunete, vicino a Madrid, un altro fronte, Hughes chiede “Dove sono gli uccelli
che continuo a sentire cantare” e la risposta è: “Non ci sono uccelli. Quello è
il fischio delle pallottole del cecchino.” A Madrid, Hughes trova un nuovo modo
di utilizzare dischi di swing, suonandoli per gli scrittori e gli artisti
dell’Alianza, in modo da nascondere “il suono delle bombe di Franco che
esplodevano fuori lungo le strade.” Questi dischi finiscono per rimpiazzare la
più tranquilla musica classica, e lui lascia le registrazioni di Duke
Ellington, Benny Goodman e Charlie Barnet agli amici di Madrid affinché “le
suonino durante i bombardamenti”. Trova un punto di contatto fra guerra civile
e lotta razziale quando intervista uno studente di colore della Howard University
di Washington. “Gli studenti universitari di colore devono rendersi conto del
legame che sussiste fra la situazione internazionale e i nostri problemi in
patria… Franco demolisce ciò che la gente ha impiegato anni a costruire. Brucia
libri, chiude scuole e soffoca l’educazione. In America i nostri studenti, neri
e bianchi, devono sollevarsi contro tutte le forze che mirano a un ordine
sociale fascista.” Il ragazzo ha ragione. Vede le implicazioni internazionali
della guerra, che è una prova generale per la Seconda Guerra
Mondiale. L’illustre biografo di Hughes, Arnold Rampersad, saputo di questa
edizione italiana del libro, mi ha scritto: “Le pagine sulla Guerra civile
spagnola sono pura classe.” È un grande piacere, dunque, per un poeta afro
americano come me poterne parlare in occasione di questa traduzione. In queste
pagine possiamo trovare un uomo capace di guardare dritto negli occhi il mondo,
ma anche dotato di un incredibile senso dell’umorismo o meglio di un equilibrio
che lo accompagna in tutte le situazioni. Hughes è uno degli scrittori con
maggior buon senso che abbiamo. Anche se vede la tragedia, ciò non gli
impedisce di godersi il divertimento. È l’insegnamento che Hughes ha appreso
quando era bambino a Lawrence, in Kansas, città a cui anch’io sono legato,
quando la nonna gli dava una mela ammaccata e marrone e lui si rifiutava di
mangiarla. Allora la nonna gli diceva: “Che problema c’è, ragazzo? Non puoi
pretendere che ogni mela sia perfetta. Solo perché ha una macchia, vuoi buttarla
via? Leva la parte marcia e mangia quella mela. È buona lo stesso.” “Così è il
mondo, osserva Hughes, se levi la parte marcia, è ancora una buona mela.” Anche
se si può trovare questa affermazione ingenuamente ottimista, è rinfrescante trovare
uno scrittore che non sia romanticamente disperato per tutto il tempo. (29
giugno, 2011 - Brooklyn, NY)
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