Kamal è un ragazzino nepalese,
orfano, naufrago nella miseria, eppure appartenente all'alta casta dei Newari,
la casta egemone a Kathmandu, culla floreale dell'omertà. È innamorato di
Buddha, il cui nome egli pronuncia per allontanare la paura mentre si sciacqua
nelle pozzanghere o durante le meditazioni del nonno sciamano. Come tutti i
suoi coetanei carezza il sogno di una vita, ma a differenza di essi sacrifica
il corpo per realizzarlo: svende un rene ai trafficanti di organi che operano
tra Oriente e Occidente. È una piaga di inaudite proporzioni che contrasta la
diffusa spiritualità orientale, una dualità spirito/macelleria che si ripete in
tutto lo sfogo di Kamal. È un vomito silente che scorre nel cinismo dei turisti
sui risciò, nelle mani dei medici collusi con le organizzazioni dedite alla
mercificazione delle vite, nella violenza e nello schiavismo perpetrati sui
minori. Un vomito che rifluisce intorno ai bordi della vergogna e della rabbia,
in cui a sopravvivere resta solo il sentimento improvviso della pietà come una
reincarnazione nel futuro.
“Dormi dormi piccolo re non
lottare ti terrò con me, è troppo tardi per scappare o per accendere la luce, viene
un drago già lo sento, chiudi gli occhi non c’è tempo…”. Suppura. Mi capite mò?
Suppura è come l’incazzatura di un vocabolario divaricato, o come la mia
ascella quando, presa dal nervoso, appunto, suppura. Perde pus dottò, che mi
fate quella faccia, perde pus come se sudasse o piangesse, fate voi. Sì, vabbè,
sotto l’ombelico pure, sembra quasi il piagnisteo del ventre, specie d’estate
quando piego l’addome per la fatica o quando a riposo canto la ninna nanna a
queste quattro ossa bambine. Dottò, non cominciate con questa ritrosìa, questa
ginnastica dei palmi che se ne vanno indietro come se non sapessero della cicatrice,
non eravate voi che con gli stessi palmi facevate la perlustrazione dentro
questo corpo piccolo piccolo come una moneta falsa? Ora venite qui accanto, vi
prego, sedete su questo stesso legno tarlato, che voglio raccontarvi un sogno
manomesso, un sogno abortito, ma con stile, con fantasia quasi, coll’azzurro.
L’altro giorno, quando
sono arrivati quelli, m’è salito
l’ansimo sulle punte dei capelli, perché con le armi non è che ci si possa
giocare a shanghai. Un individuo di fronte a un’arma cerca spasmodicamente uno
stato di colpevolezza, pur non avendolo, un individuo di fronte a un’arma si
predispone come fottuto, reo. Sputavo fiato a manetta, e mentre un fucile mi
cercava le interiora - pure quello mancava! - mi chiedevo quali altre colpe
avessi in grembo oltre a quella pecca che voi conoscete dottò. A pensarci col
cervello fuori dal cranio, quella maledetta paura me l’avete iniettata voi e la
vostra organizzazione, ma vabbè, mi sto zitto, come comandate. Sì, perché
comandate ancora, non cercate di dissuadermi da questa convinzione, voi
comandate ancora tutti i girotondi dei miei sogni mozzati, proprio tutti; potete
anche usare lo stetoscopio: la membrana posizionata in una qualsiasi parte di
questo scheletro imbottito risponderà col suono di un dolore arcano, lacerante,
un dolore che violenta tutto un albero genealogico, tutta una storia che si
riduce alla meditazione, allo spirito, affinché un Dio nasconda per bene
l’inghippo del traffico. Uno dei tanti qui, posti alla vetrina dei turisti.”
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