Il pub di Settimio è l’approdo di
generazioni perdute, il punto d’incontro di storie confinanti, di solitudini
che annaspano nell’illusione di risolversi in cerca di una free way destinata a
rivelarsi una diàspora. Le radici si sgretolano insieme alla sassosa terra
salentina, incapaci di trattenere valori e tradizioni nell’incalzare
disordinato di tempi nuovi e non certo migliori. Luca, Francesca, Dora, zio
Franco, Emanuele… dalle storie della famiglia Peschici e dalla costellazione
dei personaggi che incrociano le vicende di Danilo emerge un quadro di gente a
volte ignara di tradire se stessa, totalmente partecipe delle inquietudini e
delle corruzioni che segnano l’oggi in modo globale, immersa in un
disorientamento a mala pena illuminato da barlumi di autocoscienza e dai legami
affettivi che hanno nutrito l’infanzia. Dal coraggioso e coinvolgente romanzo
di Osvaldo Piliego esce il Salento oscuro, nascosto a chi insiste a rifugiarsi
in una pizzica mitizzata come emblema di purezza primigenia; è la denuncia di
una penna “giovane” che, pur intrisa di nostalgia, rifiuta le panoramiche da
cartolina per guardare ad occhi aperti la realtà e interrogarsi sui rischi che
essa comporta.
“SARANNO ORMAI DIECI ANNI. DOPO
CHE IL MURO di Berlino è venuto giù la libertà ha scoperchiato la povertà.
L’indipendenza, il crollo del comunismo fanno paura e la gente comincia a
scappare. Solo nel 1991 ne sono arrivati 40.000. Albanesi, aggrappati a una speranza
e a un barcone. Miracoli galleggianti, rosso ruggine che solca l’Adriatico e
arriva come il vento fin dentro le nostre case. Lo vediamo in televisione ma
basta affacciarsi alla finestra e lo spettacolo è lì. E noi siamo i
protagonisti, forse per una volta siamo migliori, meno disperati. La tramontana
oggi ti spezza in due, niente buone nuove per la cervicale. Arriva la puzza
della discarica a cielo aperto di Cavallino, un monumento al meridione che non
funziona, la nostra babele dello schifo. Franco Peschici è di volante come non
lo era da anni ormai, quella scrivania alla fine gli piaceva. Prima era tutto
azione e principi, poi la condizione impiegatizia gli ha dato sicurezza
cullando la beata pigrizia che dopo i cinquanta monta come la marea. Carenza di
personale, ferie, turni, cose dei giovani che ai tempi suoi neanche si
pensavano. Prima sapevi quando montavi ma non sapevi mai quando finivi. Quando
aveva vent’anni e tornava a casa dopo il turno, quasi si dimenticava di
togliere il berretto dell’uniforme, tanto si era abituato. Mo’ ha pure le
pantofole sotto la scrivania, ché la circolazione viaggia intasata. Troppi
mocassini, ha detto il dottore scherzando, e lui ripensava a quando l’orgoglio
dell’Arma, la gioventù, gli facevano sopportare tutto. A tutte le notti da
piantone, a sorvegliare il nulla a Otranto, alle simulazioni di guerra. Tutta
fatica sprecata, pensava e ripensava tutte le mattine, ed è per questo che
aveva deciso di riposarsi, ormai, prima della pensione..”.
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