La paura di morire che s'intreccia, scontrandosi, con la volontà di potenza. La fobia della morte che è inabissata, inizialmente, per poi emergere dagli sforzi pensati a raggiungere la fama più che la nobilitazione. L'epica del romanzo “La nicchia della vergogna”, del poco noto, o noto non come dovrebbe, scrittore albanese da secoli approdato da esule in Francia, Ismail Kakaré, narra – alla maniera delle narrazioni fra il capolavoro letterario tout court e la bibbia realmente laica dei popoli (in questo caso quello albanese) – dell'ottantaduenne pascià Ali di Tepeleni che, alla sua veneranda età, perde la testa – anche se abbiamo timore nell'utilizzo dell'espressione appena pronunciata e se ne comprenderà in seguito bene il motivo. Il pascià che aveva già vilipeso la sua frazione di popolo, ovvero l'Albania non ancora Albania ma provincia remota dell'immenso e già viaggiato dall'eroe Scanderberg Castriota Impero Ottomano pre-ottocentesco, sfida ormai quotidianamente, fino a costringerlo alla guerra, il suo sultano. Ma non riesce a capire, neppure nei suoi discorsi con l'attenta, e timorosa pure lei, moglie, che Ali di Tepeleni non è Scanderberg. Perché l'eroe, appunto, era amato. Mentre il pascià capriccioso alla fine non vuole scendere in battaglia per l'Albania e nemmeno è sostenuto dai suoi sudditi già dannatamente da lui torturati, imprigionati, derubati. E la narrazione che procedere a ritroso, comunque, fra epica e lirismo puro, fa sentire il richiamo, il respiro cattivo della Nicchia della Vergogna che il sultano ha piazzato nella capitale. Uno spazio, uno spazio vero e proprio, un angolo dove i passanti, curiosi a frotte si recano a gettare gli occhi sulla testa mozzata, persa, del pascià ribelle di turno. Perché ha questo scopo, la nicchia. Tenere in mostra il capo mozzo del sobillatore. La guerra di Alì comincia comunque bene, in un certo senso, per il pascià. Che prima a scontrarsi è inviato un combattente non ritenuto pari del 'ribelle', almeno dal ribelle stesso. Però è tutta una finta. Come è finta l'Albania buttata nel “cra-cra”: invenzione magnifica dello scrittore. Autore che poi si diverte, per noi amaramente, a spiegare tutto il male che può essere ceduto alle spalle d'un popolo. Dal potere. Nel transito di una “denazionalizzazione”. Gli eventi, tra l'altro, oltre ad avere un'ambientazione “territoriale” definita ed evocativa all'ennesima potenza, hanno uno svolgimento che avanza al suono delle corse di Tunxh Hata. Di chi stiamo parlando? Dell'uomo, per l'esattezza, apparentemente di secondo piano ma usato a forza di metafora, e non è l'unico personaggio creato a questo fine, che trasporta le teste tagliate dai campi di battaglia alla Nicchia. Tra rancori e remissioni, qualche nostalgia e soprattutto l'amore per la terra natia, nonostante la critica dell'autore è preponderante nelle maglie della trama, fanno del romanzo di Kadaré un libro che si dovrebbe pensare quale opera cardine della letteratura. Uno di quei romanzi che sia i popoli in sonno che quelli in cammino dovrebbero vivere.
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