Rinchiusa nella dispensa, la piccola Kate fissa con astio le ombre dei prosciutti appesi. Sua madre, un’irascibile vedova lituana, la rinchiude lì per costringerla ad abbandonare la sua innata avversione per il cibo. Nella penombra maleodorante di umidità e cipolle, Kate strizza forte gli occhi finché il buio comincia a respirare e a muoversi come una nuvola di farfalle: le tenebre sono vive, e danzano per lei. Nell’oscurità riesce a sentire il battito del suo cuore e può abbandonarsi a complicate fantasie. La mente di Kate è fervida e impaziente, ma nessuno si preoccupa di rispondere alle sue domande sul mondo, e così lei si crea delle idee tutte sue su quello che gli uomini e le donne fanno quando sono soli. Gli innamorati si mangiano. Affamati gli uni degli altri si staccano morsi di frutti proibiti che crescono sotto i loro vestiti. Per questo Kate ha paura di mangiare. I suoi occhi sgranati una volta hanno visto un uomo e una donna preda della passione: si consumavano a vicenda sulle lenzuola di un letto, come se fosse una tavola apparecchiata. C’è un’intera cosmogonia nel mondo di Kate: forse tutto l’universo è commestibile. Forse mangiare ed essere mangiati è il solo prodigioso modo di perpetrare la vita. Ma è nel giorno della sua prima comunione che tutto le appare finalmente chiaro. Sentendo sciogliersi in bocca quel fragile velo di pane, Kate inizia per la prima volta ad aver fame; proprio quando il suo corpo sta diventando quello di una donna e l’adolescenza la sospinge verso i segreti chiusi nelle bocche degli adulti. Christine Leunens, penna ironica e torrenziale, dà vita a un trasgressivo romanzo di formazione, in cui le metafore dell’inconscio si materializzano, si condensano e restituiscono intatte le nostre tentazioni primordiali.
"— Tu! Mangia!
— Ma non va giù…
— Solo metti in bocca e inghiotti! — urlò mia madre. Mi cacciai in bocca un altro centimetro di banana lebbrosa e pregai perché la smettesse di fissarmi in quel modo. Il boccone raggiunse la riserva stagnante che spostavo da destra a sinistra per convincerla dei miei sforzi.
— E niente castania, per favore.
La castania cui mia madre alludeva era la sacca guanciale dove immagazzinavo gli alimenti indesiderati. Lei mi pizzicò la guancia e la strizzò finché il cibo, ammorbidito dalla saliva, slittò sotto il palato.
— Quanto ci vuole?
— Sto masticando.
— Vuoi che conto fino tre?
Aveva deciso che non c’era niente da masticare. Secondo la sua logica e le leggi della fisica, quel pus da lebbrosi poteva scivolare con facilità lungo qualsiasi piano inclinato. Avrei preferito che al posto del mio tubo digerente ci fosse stato lo scarico del lavandino.
— Uno. Due…
Infilai il dito nella polpa e cominciai a togliere le parti scure e molli che qualcuno aveva avuto la grande idea di paragonare a dei lividi, e intanto facevo del mio meglio per smettere di immaginare che la banana fosse l’avambraccio di Miriam e quelle che rimuovevo le piaghe purulente sotto le sue croste. Quelli che io consideravo lividi, per mia madre erano mangiabilissima polpa. La banana mi fu strappata di mano e se non avessi girato la testa in tempo me la sarei presa in faccia. In meno di una settimana, camminavo dritto quanto un marinaio ubriaco. Andai a lamentarmi da mia madre; lei soppesò le mie gambe e mi disse di mangiare di più. Stavo portando in casa la spesa quando caddi sul vialetto d’ingresso e mi scheggiai un incisivo. Lei mollò papaia, finocchi e pacchi di farina integrale a metà prezzo e corse a controllare le mie vaccinazioni della polio. Il dottore mi premette un bastoncino da ghiacciolo sulla lingua, mi visitò gli occhi e le orecchie con una luce. Mi disse di star ferma e con un arnese molto appuntito estrasse dal mio orecchio una cosa giallastra che a me pareva pus secco.
— Mi spiega come diavolo ci è finita la banana qui dentro?!
Di solito la gente quando si arrabbia strizza gli occhi; il dottor Kreushkin invece li spalancò, mettendo in mostra i bordi rosati delle palpebre inferiori, che mi hanno sempre fatto pensare
al prosciutto.
— Oh, questa bambina fa tutto per non mangiare. Mi farà invecchiare prima di tempo.
Mia madre fece spallucce, poi si riaggiustò il fazzolettino tra i seni. Chissà perché, le gocce di sudore sul labbro le davano meno fastidio. Il dottor Kreushkin abbassò gli occhi su di me con mal celato disgusto. Io increspai il mento e ingoiai il mio amor proprio. Non avevo il permesso di contraddire mia madre, vale a dire che in pratica dovevo mentire."
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