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martedì 5 aprile 2011

L’arte dell’inganno, di Vittorio Giacopini (Fandango). Intervento di Nunzio Festa








La romanzata biografia non-biografia dello scrittore B. Traven, “L’arte dell’inganno”, è un’appassionate libro di Vittorio Giacopini che riesce a coinvolgere lettrice e lettore addirittura più della precedente opera ‘sul’ genio della musica Parker. E molto merito, lo si deve riconoscere, va sicuramente alla stessa vita a dir poco avventurosa e piena di mistero dello scrittore molto probabilmente d’origini tedesche Traven, o come veramente si chiamava. Con una prosa che avvince passo per passo, tra inganno e fantasia, oltre dunque il carattere già originale d’una cronaca che tocca la Germania dei sogni di riscatto del proletariato e il Messico dei sogni di riscatto degli indigeni oltre ovviamente alla Storia di rivoluzioni e guerre e repressioni massicce, Vittorio Giacopini nuovamente riesce a tenere viva l’attenzione di chi legge in maniera prepotente. Sempre. E questo è solamente il primo punto. Che, si deve capire, questo capolavoro di Giacopini è degno delle migliori biografie d’artista e d’intellettuali che biografi d’esperienza hanno scritto e scriveranno. Ma non è, questo, che solo un altro punto. Un puntino che anticipa l’altro dettaglio. Uno dei puntini della favola. L’altro dettaglio è persino più duro, ostico. Cioè che la materia prima che ha voluto studiare Giacopini è di quelle che mettono tanto in difficoltà. Insomma non sarebbe stato possibile scrive né un romanzo puro né una biografia pura, partendo da B. Traven. E facendo rivivere lo scrittore B. Traven, ovviamente al netto delle sue identità però con, allo stesso tempo, ogni sostegno delle sue opere e dei suoi cambi di vita. Ret Marut, una delle tante firme prive di documento dello scrittore quando ancora ‘forse’ non era scrittore, ai tempi di Rosa Luxemburg e Spartaco fu prima attore dilettante, che avrebbe voluto essere professionista, ma poi soprattutto agitatore politico e animatore insieme a penna principe d’un giornale con il quale si cercava di tenere sempre in allerta, alla maniera degli anarchici – che Traven anarchico è stato (e forse questa è addirittura l’unica certezza a disposizione) – il proletariato della Germania prima del nazismo. Ma, ci chiediamo, è pare chiederselo anche l’autore, Marut era il figlio non riconosciuto del Kaiser? Per questa ragione, insomma, non era sempre tenuto in cella e persino gli permisero la fuga mentre tutti i compagni finivano in prigione e uccisi? E in questa disputa di certo Traven, o come davvero si chiamava, non s’inserisce. Mai. La cosa bella, invece, è che Giacopini rende perfettamente ambientazioni e vite che sanno, oltre che di rabbia e coraggio, di questa mitica arte dell’inganno che B. Traven aveva inventato per sfuggire alla norma del mondo. Per opporsi, persino, con metodi tutti suoi chiaramente, alle prove sottomettenti del capitalismo, del Sistema. Inutile, in questa sede, riprendere in mano la trama. Perché non siamo, per così dire, che dentro e fuori tutto Traven. Perfino oltre la sua vita. In un romanzo che lo scrittore Vittorio Giacopini inventa per mettere nello stesso spazio ideale grande storia e grandi storie. Naturalmente, dopo la lettura del testo, tantissime e/o tantissimi almeno proveranno a cercare gli introvabili libri firmati B. Traven. Ma alla fine chi era Traven? Non c’interessa. In quanto quel che deve interessare è sapere che sono esistiti uomini il cui esempio di libertà assoluta ha messo in crisi il resto dell’umanità soggetta alla branchie del successo. Giacopini sceglie di scrivere questo libro con una lingua che non rinuncia a nulla. Quasi parafrasando il soggetto della dannazione. Tra divagazioni, tutte linguistiche, che smorzano la fluidità del racconto e che però in contemporanea servono per alleggerire il macigno del tema di fondo. L’identità. Necessità e non: d’identità. In un mondo di barbarie.

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