Della libertà selvaggia nella savana ho potuto godere ben poco. La mia è una storia pietosa anche se, per certi versi, straordinaria. I miei genitori vennero catturati dai cacciatori bianchi e non ne seppi più nulla. Anche se mi auguro che siano a vegetare in qualche zoo temo che sciacquino tra ristoranti di lusso e locali notturni addosso a qualche damazza d’alto bordo. Spero almeno che passino i mesi estivi in quei depositi refrigerati e blindati al riparo dai ladri e dalle tarme. A me non è andata di lusso ma già il fatto di essere qui a raccontarla è una buona cosa. Quando venni preso ero troppo piccolo perché fosse conveniente uccidermi e scuoiarmi. E’ così che sono finito in questo minuscolo zoo nel sud della Francia. Ora che una qualsiasi sgallettata don’t touch my Breil può indossare il simulacro della mia pelle che invade i mercatini rionali di tutto il mondo, è bene che io racconti la mirabolante avventura che ha fatto del fantasma della mia pelle un must. Vivo in una gabbia abbastanza grande e confortevole. Anche il vitto è discreto. Una volta al giorno mi vengono servite delle sanguinolente frattaglie. Avanzi di macelleria, certo ma abbastanza freschi e in discreta quantità. Un paio di grandi tronchi consentono di rifarsi le unghie e c’è lo spazio sufficiente per qualche saltello. Ancora adesso la notte sogno di mimetizzarmi tra le erbe della savana in attesa che passi un’antilope di Clarke distratta. La inseguo, l’ abbatto e mi faccio un pranzetto come si deve. E’ più o meno quello che si vede in tutti i documentari del National Geografic. Il documentario per fortuna è sempre lo stesso se no le antilopi di Clarke sarebbero estinte e i leopardi tutti obesi. I bambini ormai cambiano canale all’inizio della scena. Non per raccapriccio ma per sfinimento. Quando gli alunni delle scuole vengono a trovarmi faccio ancora il mio grrrrrrr come da regolamento. Lo faccio persino la domenica se il bimbo che arrivava con il papà è simpatico. I bimbi in genere sono un guaio perché tirano le noccioline che avanzano dopo la visita alle scimmie. E’ imbarazzante ma si perdona loro perché non sanno quello che fanno. Io sono un leopardo e le noccioline non le sopporto. Tanto tempo fa quando avevo appena raggiunto il mio pieno sviluppo, la piena maturità dei miei 33 mesi, un brutto giorno avvertii nella mia razione di carne un sapore dolciastro. Capii subito che c’era qualcosa che non andava ma non feci in tempo a rimediare perché una sonnolenza invincibile mi colse. Mi risvegliai disteso su un lettino a pancia in giù con le zampe legate ai quattro angoli. Cazzo! Vivisezione! Fu la prima cosa che mi venne in mente. Cercai di fare qualche grrrrr di disappunto ma avevo la lingua impastata dal sonnifero e più che un ruggito emisi un flatus vocis assai disonorevole per un leopardo. Mi ero già rassegnato al bisturi quando una serie accecante di lampi cominciò a scaricarsi su di me. Erano almeno in tre o quattro. Mi fotografarono a lungo da tutti i lati. I loro obbiettivi frugavano tra le mie scapole, indugiavano sulla schiena, scandagliavano i miei fianchi inquadratura dopo inquadratura. Mi scattarono delle foto sul muso e, con un certo imbarazzo, mi accorsi che anche le mie natiche avevano destato la loro curiosità. Da allora la mia bellissima pelliccia è stata riprodotta infinite volte, scannerizzata, ingrandita, rimpicciolita, piegata a infiniti usi. Il simulacro del mio manto è stato stampato su magliette, pellicce ecologiche, reggiseni, pantaloni, braghe, braghette, slip, tanga e perizoma. Sono diventato popeline, plastica, guttaperca, seta, cotone, microfibra. La mia sinuosità, la mia agilità e la mia aggressività sono evocate sui corpi di indossatrici e casalinghe, madri di famiglia e puttane, veline e beghine, vecchie zie e adolescenti. Non potevo immaginare tutto questo. Quando, tanto tempo fa’, un raffinato signore cominciò a frequentare troppo assiduamente lo zoo soffermandosi ad osservarmi accuratamente non potevo immaginare quale fosse il suo interesse per me. Poi seppi che era un pied noir di Orano che aveva deciso di fare i soldi con la moda. Fu il primo ad usarmi e non posso negare che avesse un certo gusto. L’idea in sé non era cattiva: piantiamola di ammazzare leopardi per concedere a qualche stronza lo sfizio di farsi una pelliccia. Però, dico io, allora piantiamola lì. Basta con i leopardi e amen. Nient’affatto. Le donne il leopardo lo vogliono a tutti i costi. Anche leopardato in fotografia. Dopo il pied noir di Orano, che credo si chiamasse Saint Laurent, la mia pelliccia è diventata terra di nessuno e nessuno, dico nessuno, si è mai sognato di offrirmi un filetto al sangue di diritto d’autore. Ora continuo a fare grrrrr alle scolaresche. Saltello un po’ e sogno ancora le cacce nella savana. Ma quando l’altro giorno un bambino, davanti alla mia gabbia, ha esclamato: “Guarda papà, un grosso gatto con le mutande della mamma!” Il mio grrrrrr si è levato alto e forte. L’avrei sbranato.
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