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sabato 9 aprile 2011

Intermezzi sulle Apparenze 1 di Raffaele Gorgoni ovvero dove si parla di Luois Vuitton & Co.











La situazione era di quelle alle quali le signore come me non sono molto abituate. Come stare sull’autobus all’inizio della corsa verso il centro. Salgono in molti e pochissimi scendono, così si finisce con l’essere tutti un po’ pigiati. Ogni volta che la leggiadra cameriera con grembiulino e crestina apriva il pesante portone una gentildonna faceva il suo ingresso consegnando paltò e borsa alla servizievole fanciulla. Se mantelli, pellicce e cappotti prendevano la strada del capace guardaroba noi borse finivano sul canapè, più a portata di mano per le sigarette, il cellulare, una ripassata di rossetto e quant’altro. L’ambiente non era dei peggiori. Un paio di Kelly se ne stavano per conto loro nell’hortus conclusus della loro snobberia, Un gruppetto di Gucci ciacolava disinvolto e al capannello si erano aggiunte anche un paio di Hermes. Noi Vuitton eravamo un po’ incerte se fare comunella o restare tra noi. Gli sguardi si incrociavano di continuo. Occhiate come lame, sorrisi al vetriolo, reciproche misurazioni per tutto ma soprattutto sulla consistenza delle carte di credito e dei carnet di assegni che celavamo nei nostri corpi seducenti. Le Kelly avevano tutta l’aria di saperla lunghissima. Sfingee e impassibili. Se non ricordo male qualcuna di loro si era persino fatta un giro tra Regina Coeli e il carcere di Opera quando si smantellò la Prima Repubblica. Acqua passata! Ormai in Italia c’era la piena democrazia dell’alternanza e le Kelly erano comparse anche sui banchi della sinistra più estrema, buone ultime dopo le Gucci. Pare che solo le buste di Hermes resistessero rifiutandosi di andare oltre il centro postdemocristiano ma si sussurrava che ad un certo matrimonio la matura moglie di un gauchiste, che più gauche non si può, avesse sfoderato una piattina con la mitica H. Noi Vuitton, bipartizan da sempre, abbiamo precorso la crisi delle ideologie del Novecento e persino la caduta del Muro di Berlino. Sin da tempi remotissimi facevamo capolino tra i fasci dell’Acca Larenzia senza tralasciare lo chic di Potere Operaio. Ci sentivamo perfettamente a nostro agio in San Babila come negli incandescenti corridoi della Statale. La serata era la suo clou. I saloni rimbombavano delle chiacchiere delle nostre proprietarie che arrivavano al canapè lievemente attutite dalla distanza di gallerie e corridoi marmorei tempestati di quadri importanti e damaschi. All’ennesimo lieve trillo campanello la soccorrevole fantesca accorse per ricevere una ritardataria. Solita scena: paltò nel guardaroba e borsa ad affollare il già affollatissimo canapè. Lieve shock collettivo. Inarcarsi di sopracciglia. Mezzi sorrisi. Rapido incrociarsi di sguardi. Che ci faceva, a quell’ora, un Lui tra tante Lei? Già perché era proprio un Lui, un po’ trafelato, quello che si adagiò, come dopo una lunga corsa, sul nostro canapè. Si, insomma, era uno di noi Vuitton ma era uno zainetto, un Lui in un’ora che avrebbe fatto meglio a restare a casa e lasciare il passo a una bag da pomeriggio. Ma tant’è. Si guardava intorno un po’ spaurito. Doveva essere molto giovane. La sua guttaperca sfiorò leggermente la mia. Farfugliò qualche parola di scusa. Devo confessarlo: avvertii il preludio di un brivido. Nel suo modo d’essere c’era qualcosa di selvaggio, di carnale, nella sua timidezza una domanda di protezione che prometteva di ripagare con una sensualità senza limiti, nel suo imbarazzo l’annuncio del disvelamento di una passionalità travolgente. Una delle Kelly cominciò a fissarlo sfrontatamente. Una busta di Hermes, un’acqua cheta, si passò persino la punta della lingua sulle labbra. Troie! Lo pensai e l’avrei detto se l’ambiente fosse stato diverso. Il caso me l’aveva paracadutato a fianco e se ci fosse stato da dare battaglia non mi sarei certo tirata indietro. Non ero proprio al Dio me l’ha dato, guai a chi lo tocca ma pur sempre à la guerre comme à la guerre. L’epifania di un Lui in quel gineceo aveva reso subito l’atmosfera più elettrica. La conversazione prese immediatamente quota. I gruppi si rimescolavano di continuo ma lo zainetto accanto a me restava come un polo d’attrazione, un magnete, il centro di un sistema che ruotava intorno alla sua arietta da cucciolo spaventato che nascondeva, ma neppure tanto, l’avrei giurato, un implacabile predatore. Cercavo di rassicurarlo con qualche chiacchiera leggera e intanto lasciavo correre lo sguardo sulle sue strisce di cuoio, sugli anelli dorati e le fibbie. Non ricordo se riuscii a trattenere un lieve aggrottarsi delle mie sopracciglia. C’era qualcosa di trasandato sulla sua pelle come se trattenesse qualcosa dell’originaria animalità. Un che di sdrucito e di precario filtrava dalle borchie. Un senso di non finito imprigionava un’energia trattenuta. Era giovane ma era come se avesse già conosciuto il mondo, come se la strada fosse stata la sua casa, come se avesse già ascoltato tante lingue diverse e sconosciute.

“Sei un po’ in ritardo per un the delle cinque...”.

“Già! Un po’ in ritardo...”.

C’era un che di brusco e gutturale nella sua voce.

“Io sono qui dalle cinque in punto e sono già sfinita...”.

“Perché sfinita? Hai l’aria di conoscere tutti. Sono io che qui mi sento un pesce fuor d’acqua...”.

Eccolo lì, pensai. Classica richiesta d’asilo, domanda di protezione, ricerca di rassicurazione. Un figlio di puttana perfetto. Va da se che ho un debole per i figli di puttana che simulano di essere a disagio, che fingono di essere spauriti in un consesso di damazze.

“Vieni da lontano?”.

“Parioli...”.

Che è poi come dire dal nulla. Può essere un attico di via Martelli come un seminterrato di viale Romania.

“E tu?”.

“Da Milano. Via dei Giardini....”.

Così non ci sono equivoci.

“E vieni giù da Milano per un the? Non ve n’è rimasto più di the a Milano?”.

Eccolo qua! Non ha neppure ripreso fiato e già sfodera un tono arrogante e beffardo. E’ un bastardo.

“E’ che il Milano, Roma, Milano lo faccio in media un paio di volte la settimana...”.

“Beh, dev’essere na vitaccia....”.

Fu solo una sfumatura. Certo non posso dire di conoscere Roma come Milano ma in quella frase avvertii non un’inflessione ma una sorta di retrogusto che non sapeva di Parioli. Mentre liquidavo con un paio di silenzi ben calibrati il tentativo di intrusione di una delle Kelly ebbi il tempo, non dico di meditare ma di fantasticare. Altro che Parioli! In quel na vitaccia c’era qualcosa che andava da San Lorenzo a Trastevere. Ce ne restammo un po’ a rimirare lo sciacquo delle chiacchiere, i fremiti delle Gucci, l’aria compassata di una Prada nel cicaleccio che si levava dal capannello delle Kelly che si era mescolato alle Hermes e alle Vuitton. Mi seccava dare l’impressione di voler rimanere in disparte con quello sconosciuto silenzioso. Stavo per dirgli qualcosa, una cosa qualsiasi e voltandomi lo colsi in flagrante sbirciata nelle profondità della mia lampo lasciata inavvertitamente semiaperta. Non so se la guttaperca possa arrossire. Certo non arrossivo più da quando, ragazzina, vegetavo in una vetrina di via Condotti. Eppure mi sentii avvampare. Quel bastardo con l’aria più innocente del mondo continuava a guardare nella profondità oscura della mia intimità. Di norma me la cavo con una battuta ma la battuta non venne. C’era qualcosa che si rimescolava sul fondo. Se non era un tubetto di crema lasciato aperto dovevo essere proprio io. Le Kelly, le Prada, le Gucci, le Hermes, le mie sorelline si dissolsero. Era come se su quel canapè fossimo rimasti solo io e lui.

“Non ti sembra di essere un po’ sfacciato?”.

Credo di avere persino balbettato.

“Non ti sembra che possa permettermelo? Non sono mica uno di voi...”.

Lo disse chinandosi ancora un po’ sulla zip aperta.

Fu a quel punto che vidi la sommarietà con la quale il suo rivestimento interno era stato malamente incollato con sbaffi di resina e una zoppicante cucitura di nylon. Miiio Diiiio! Aiuuuto! Un falso! Avrei voluto urlarlo ma non lo bisbigliai neppure. Terribile, lacerante, squassante quella scoperta mi scosse dai manici al fondo, tese allo spasimo le mie solidissime cuciture. Cercai di riprendere il controllo dei miei nervi.Sei una Vuitton, mi dissi. Sei una vera Vuitton! Non puoi fare scenate! Quel bastardo era un falso. Un altro pensiero mi trafisse: se tutta quella masnada che ci circondava avesse scoperto che mi ero fatta abbindolare da un falso zainetto Vuitton sarebbe stato meglio non rimettere più piede a Roma ma il gossip sarebbe volato fino a Milano e Portofino e Porto Ercole e Cortina. Sarei finita sulla bocca di tutti. Piantala! Gli sibilai. L’infame ovviamente sorrise di un sorriso ingenuo e beffardo, candido e sfrontato, infantile ma soprattutto immensamente sexy. Laggiù, nel mio basso ventre, tra mazzi di chiavi, portafoglio, cellulare, occhiali da sole, spiccioli e fazzolettini di carta esplose qualcosa che avrei dovuto ritenere riprovevole, una tempesta dalla quale mi lasciai sommergere senza alcun ritegno. Avvertii che dalla sua guttaperca esalava un afrore aspro, un richiamo sessuale irresistibile che sapeva di negri e di marciapiede, di basso napoletano che di meandro di metropolitana. Avrei dovuto essere indignata.Avrei dovuto. Ma nel sorriso che gli restituii non c’era traccia di indignazione.

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