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lunedì 25 aprile 2011

Adriano Accattino, Tema supremo. Un salto nell'alto vol. 4 (Mimesis). Intervento di Silla Hicks








Questo non è un libro facile, non sono nemmeno 100 pagine ma ci vuole tempo per leggerle, e ancora di più per pensarci, capirle sinceramente non lo so: voglio dire: io, l’ho letto. Non so se l’ho capito. Certo, mi è piaciuto, e mi ha indignato, anche. Non so se sia poesia, e nemmeno se sia un saggio. Piuttosto, parlerei di monologo filosofico, ammesso che esista come categoria letteraria. E che sia letteratura, non c’è dubbio. Insomma, ci vuole coraggio a parlare di morte. Che sia il tema supremo: non so, io che come giustificazione dell’esistenza non riconosco nessun dio e nessun fine, e che anche adesso, solo e qui, la ragione di tutto penso sia l’amore. Ma certo interrogarsi sulla morte, rivoltare come un calzino il buco nero che ci aspetta, con la caparbia paura di un bambino che si sfida a dormire a luce spenta per non avere più terrore del buio affamiliandoselo, non è un compitino elementare, significa guardarci attraverso costringendosi a occhi aperti, stare fermo quando vorresti solo scappare via. Tanto più oggi, che vivere ci assorbe in una tensione spasmodica di ipermercati di cose e di corpi, che ci strema al punto che nessuno pensa o vuole pensare debba finire. Non concordo su qualche conclusione, ché la morte non si porta via solo bellezza sfiorita e perfezione corrotta, si porta via a caso ciò che vuole e quando vuole, l’ho capito al Fazzi nel 2003, ero in fila per donare il sangue e una ragazzina B-E-L-L-I-S-S-I-M-A mi ha chiesto una sigaretta che abbiamo fumato nel sole di giugno: aveva 16 anni e faceva la dialisi peritoneale ed è morta dopo qualche settimana e, cazzo, non era imperfetta né giunta alla fine di nessun ciclo, era solo all’inizio, solo l’embrione della donna dei sogni di tutti che poteva essere, e non potrò mai accettare che ci sia senso, in questo, né nel morire di Ilva o di strada o di freddo o di guerra o di pace come Vittorio che è stato massacrato ieri, se non vuoi chiamarla livella chiamala come ti pare, ma è sempre lei, è Samarcanda, una lotteria cattiva e insensata, almeno da quaggiù, dal mio angolo di visuale: non sono un filosofo, io, ma solo un uomo. Ma è vero, che stiamo solo in mezzo al crinale del monte, e che dalla vetta forse le macchie di colore impastato che ci sembrano solo sporco diventano un quadro, che tutto assume il senso del disegno globale solo visto dall’alto, come il pointillisme che se non ti metti abbastanza lontano non riconosci volti né case né strade. E che quindi – lo ha detto anche la Fallaci, sai – anche se uno muore (o anzi: anche se io o te moriamo) alla fine non importa, ché la vita non muore, si trasforma e basta, passa dalla nostra forma e la rimpasta in qualcos’altro, come rimpasta in noi gli animali che mangiamo. Ed è vero che la nostra casa, il nostro corpo, si consuma mentre ci accresciamo nell’essere più vero, con le esperienze e le cicatrici e le carezze e i libri e i film che ci nutrono nel tempo che ci è concesso avere: i nostri muscoli che diventano marcia zavorra che inesorabilmente ci trascina a fondo, proprio mentre finalmente impariamo a nuotare. Ancora più vero mentre lo dici tu, che hai il nome dell’imperatore di Marguerite, folgorantemente consapevole di tutto mentre tutto finisce, e gliene restano solo memorie: dio, quante domande e quante risposte,nel tuo nome, Adriano. Una su tutte, il senso della vita nel continuo evolversi, nella ricerca di espansione di cui parli e che ricorda a un tempo Eraclito e Siddartha, un’espansione che è fame di altrove – un salto nell’alto - ma anche di pensiero cesellato: se io ci ho messo a leggerlo tu ci hai messo di sicuro molto di più a scriverlo, questo libro, una parola che s’incastra nell’altra, cento pagine di mosaico. Rivoluzionario consiglio, oggi come oggi, che tutto è instant book: ma questo credo che lo sai. Com’è rivoluzionaria la tua idea di scrittura, tutto l’universo in trentadue libriccini divisi in 11 volumi, un’opera da titano, adesso che lo spazio disponibile sono 3-4.000 caratteri al massimo, chè di più on-line non si riesce a leggerne, mi hanno spiegato. Per questo – solo per questo – devo fermarmi, adesso, ma leggetelo, questo libro, leggetelo anche se vi farà male, e avrete voglia di tirarlo contro il muro, perché per voi – per me – la morte resta livella ingiustamente ingiusta. Non so se vi riconcilierà con la morte o no. Con me, non c’è riuscito. Ma so che se a leggerlo ce ne vuole, e ce ne vuole a rifletterci sopra, ce ne vuole di più per non restare a pensarci. Ed è a questo – a fare pensare – che serve, quando è buono, un libro, uno vero.

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