Questa storia di guardie e ladri, queste vicende che da “Milano criminale” fanno passare un periodo italiano di quelli vergati dai Montanelli vari, sono testimonianze in forma di romanzo dell’anima d’almeno un pezzo dell’Italia unita e disomogenea. Un romanzo che, se già non conoscessimo l’autore Paolo Roversi già garanzia, scrittore che ama le trame fitte di pistole e duelli moderni quanto antichi, potremmo definire della maturità; a costo, persino, di portare uno sgarro alla stessa scelta del Roversi - che non scrive per produrre o fortificare miti: eppure noi, come gli italiani che dal ’58 a qualche decennio in poi seguono i fatti narrati, non possiamo che sentirci al fianco di rapinatori che prima d’iniziare a sparare hanno tentato l’uscita della miseria attraverso un passaggio a ostacoli che porta alla loro stessa fine. Tutto ha inizio in via Osoppo (tutto se si pensa alla ‘storia’ di fondo dell’incalzante romanzo – dove ci tornano le immagini dei diversi Vallanzasca - ), il 27 febbraio 1958. Ovvero la data che il poliziotto Antonio Santi e il bandito Roberto Vandelli, sempre in lotta fra loro e oltre loro stessi, come è naturale che sia, hanno impresso nelle vene scolpite dai loro differenti lavori. A ogni punto di barricata dietro la quale, effettivamente, stanno. Non solo una vocazione, ma la classica scelta di vita. Perché Vandelli dopo la rapina che vede in diretta decide di diventare bandito, mentre Santi decide che deve entrare in polizia. Corpo, d’altronde, che lo porterà a fare a botte con l’idea di necessità dell’intervento repressivo quando arriveranno le occupazioni e le manifestazioni, bardate persino da atti violenti, del ’67-’68-’69. Per non parlare di quando Roversi, insomma, farà ricominciare il racconto d’una criminalità milanese che è da analizzare e certi versi per incorniciare in un clima complessivo del Paese. In pratica dove ci sarà spazio, sostanzialmente, per il futuro Millenovecentosettantasette. Nel frattempo, però, Roversi riesce a far rivivere, appunto come se fossimo nel film più riuscito, parole e volti della “malavita” ‘lombarda’. Certo aiutato da “storie private”, fitte d’amori domestici ed extrafamigliari, Roversi permette di sentire di nuovo una Milano, e dintorni, che sono intanto l’humus che fa spuntare i fiori del male. Che Vandelli e tanti altri, per dire, escono dalle vite di periferia. Molte volte portatori, addirittura, d’una certa e colorata a tratti, idea di riscatto inseguita con foga. A dispetto, naturalmente, delle pause da galera. Di gabbie nelle quali si diventa banditi più esperti o si muore/soccombe. L’opera di Roversi, la migliore che fino a questo momento abbiamo letto, descrive con la mano dell’osservatore perfetto quanto non invasivo che s’annusa, consegna a lettrici e lettori materiale di svago. Ma d’uno svago che consente a noi di guardare nelle nostre idee sulla vita. Perché? Provate, rispondiamo, a sentire le fotografie di pezzi di giovani coi soldi a fare barricate a mano armata in certe occasioni. Ad ascoltare gli scatti di momenti di commistione ideale fra il poliziotto che conosce il ‘delinquente’ che ha di fronte oppure deve controllare il riso davanti agli studenti che contestano i borghesi impellicciati alla Scala. Perché questo romando di Paolo Roversi fa camminare tante singolarità, di circostante e di Storia italiana (e non solo italica), in mezzo al procedere di moti collettivi che sono il fenomeno complessivo come parziale. Dalle mosse dei banditi. Alle occupazioni di studentesse e studenti. Passando per gli scioperi operai. Con lenti che tolgono il tipico tabù che in tante situazioni non ci fa leggere le osservazioni della Polizia, in quanto questa è serva pronta a mettersi contro le nostre obiezioni al potere. Una Milano tutta rossa di bollori, e nostra.
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