Il grande Vladimir Nabokov, preso come era dal rigore naturale di farfalle e lepidotteri, oltre che dalla letteratura, era solito affermare che il vero scrittore non deve essere un precettore, né una guida morale, né tanto meno un sociologo. A suo parere doveva sforzarsi di essere invece un illusionista. Un abile mago. Di Nabokov, è certo, possiamo fidarci e permetterci dunque di immaginare Antonio D’Orrico come un giocoso Haudini.
Critico letterario, giornalista, opinionista, festoso scrittore di tendenza D’Orrico, con il suo romanzo Mondadori dal provocatorio titolo “Come vendere un milione di copie e vivere felici” tenta infatti la strada di una funambolica evasione. Con la forma del romanzo grottesco, Antonio D’Orrico ci racconta il dorato, equivoco, strabiliante mondo della letteratura e il primo desiderio che si prova leggendone è quello di fuggire. Perché stupirsene? A certi giochi D’Orrico ci ha abituato da tempo, attraverso miracolose recensioni, che, più che far critica, fanno satira, costume, colore. Le sue castigant ridendo mores, direi quasi, secondo le più nobili tradizioni latine. Letterato sempre pronto ad incenerire miti, colpire eccessi, ridimensionare correnti o incoronare romanzi capolavori da altri trascurati, d’Orrico ha scoperto scrittori sommi, creato paralleli e confronti tra diverse letterature, che a molti colleghi erano sfuggiti. È stato il caso di Faletti, Piperno e Cappelli. La recente esaltazione per i romanzi di Gaetano Cappelli resta la battaglia più meritevole, la più ardua e, nello stesso tempo, la più affine. Per certi versi, infatti, lo stile di D’Orrico ricorda proprio quello caustico, brioso ed amaro del grande Cappelli, pur senza toccarne i vertici passionali. La storia in sintesi? Il prof Federico Sicoli insegna agli allievi della Scuola Superiore di Scrittura “ C. Pavese”. Scrivere è un “ruba ruba”, spiega sin dalle sue prime lezioni, e, per far sì che gli aspiranti scrittori se ne convincano, fa addirittura indossare loro le mascherine nere della Banda Bassotti. Da questo incipit prendono il via le avventure, tra il comico e tragico, di due allievi in particolare: Vittorio Campari e Kashmir Paolazzi, due individui particolarmente dotati, con i quali, in tempi diversi, il prof Sicoli ingaggia un vero e proprio duello, a suon di pubblicazioni, sortite nei salotti della buona società, folli sceneggiature, fiction e sgambetti vari. Nessun colpo è escluso. Nel nome della Scrittura, infatti, per Sicoli sono possibili molte nefandezze. Lo scrittore deve sapersi trasformare di continuo, afferma il docente con cognizione di causa, mascherarsi, usare il nome giusto al momento giusto, deve saper infrangere ogni tabù, essere senza vergogna, senza pudore, deve sapere preservare, conservare se stesso e le proprie parole, perché nulla si cestina, ma tutto si ricicla. Ciò che più conta per lo scrittore, infine, è conoscere, sempre e comunque, le giuste domande (mentre le risposte, invece, non contano granché!). Siamo quindi dinanzi ad un romanzo gioco, che ha tutta l’aria di uno sberleffo nei confronti di quanti, in quello stesso mondo, tendono a prendersi troppo sul serio. Una serie di scatole cinesi, con rimandi dotti ad altri romanzi, citazioni, coriandoli d’arte che oscillano tra il noir e la commedia, con risultati a volte sorprendenti. D’Orrico, quindi, sembra davvero dotato di una sorprendente tecnica circense, producendosi in questa sua nuova, talentuosa risata, ma quello che latita, forse scientemente, nel suo romanzo è giusto il cuore. O, meglio, la pietas, quella rivolta alle miserie e alle debolezze degli uomini, pure tanto cara ai latini.
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