Un gradito ritorno che è presenza per la gioia di vivere e morire. A due anni di distanza da “Sognando Li Po”, omaggio 'elegante' e sentimentale alla poesia cinese, per i tipi della sempre disponibile e attenta Fazi esce l'antologia (che raccoglie anche una piccina sezione d'inediti) del nostro poeta nazionale, quanto appartato, Claudio Damiani; una summa che si deve grazie al lavoro appassionato dello scrittore Marco Lodoli. Che, tra le altre cose, in sede di prefazione che può 'stranamente' esser un tutt'uno col libro, ricorda alcune chiavi di lettura delle poesie di Damiani. Senza fare torto a Lodoli, comunque, o senza minimamente volerlo, si può provare ad avviare altri approcci: nuove adesioni. A un libro, va spiegato, che può – non ce ne voglia l'autore – stare affianco alle opere serie e prestigiose d'altre penne sottratte alle indagini del classicismo critico d'Italia. Autori che non dimenticheremo. Sempre. E poeti, su tutto, vedi il nostro diverso Claudio Damiani. Che Damiani, premi a parte, perché di riconoscimenti ne ha ricevuti molti, e tanti ne riceverà ancora, se pur non ancora venga decantato al pari d'un Luzi e d'un Cucchi, davvero insegna – lui maestro in più significati – quanto la quotidianità sia terra di poesia. Nel sunto, “Sognando Li Po” arriva verso la fine. Prima dei nuovi versi de “Il fico sulla fortezza”: sezione in forma di silloge che affida appunto a un esemplare ed esemplare come vero fico la normale consuetudine di meravigliarci. In apertura Lodoli ha voluto sfiorare la maturazione, quella dell'adolescenza e oltre di Damiani, chiaramente spiegando quanto il “sentimento” e la freschezza delle riviste “Braci” e “Prato Pagano”, quelle d'altronde dal poeta vissute insieme all'altro intramontabile Beppe Salvia, lui, quest'ultimo, persino lucano, sia stata la differenza di tanto confronto comunque aperto nell'ex Belpaese. Poi, da presto, si prendano fra le dita alcuni versi dei due componimenti titolati entrambi “Elegia”, dal libro “Fraturno”, e iniziamo a saper il resto. Da “La mia casa” (1994), invece, s'entri, per meglio leggere, in: “(...) Che bello che questo tempo, come ogni tempo, finirà, / che bello che non siamo eterni, / che non siamo diversi / da nessun altro che è vissuto e che è morto, / che è entrato nella morte calmo / come un sentiero che prima sembrava difficile, erto / e poi, invece, era piano.” Riusciamo a non tornare a sentire più volte questi passaggi? Queste descrizioni che sono un silenzio oltre il silenzio stesso, oltre lo stesso silenzio dell'affratellamento fra pari? Sorretto, per di più, una piccola voce (o una musica?) che non è sottofondo, ma parte essa stessa del destino immortalato? L'apice è raggiunto nella “Miniera”. Solcando frammenti, vedi il dialogo con gli alunni proprio di Claudio Damiani su vita e morte, che conducono in una indimenticabile canto di “Attorno al fuoco”, una delle 'parti' più recenti dell'antologia: “Noi della resistenza non è che andiamo in strada a sparare, / né ci nascondiamo in montagna, / né scriviamo sui giornali, noi della resistenza non facciamo niente / ma quando moriremo avremo nella nostra mente / un ordine beato che chi ha consolato, (...)”. Parole sottratte alla guerra, e in special modo alle logiche di guerra, stipando in loro rabbia e specialmente orgoglio. Fiori di dignità. Un dire perfetto. Che trattiene l'impuro e nel mentre ricorda quanto impuro ci sia. Come se fosse un parlare ai figli. E dalla stessa parte dei figli. Quindi di tutti. D'ognuno. La poesia di Claudio Damiani consegna al cuore l'esistenza dell'universo naturale in una Italia solo da ripensare
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