Due giorni fa si è spento nella sua casa di Cutrofiano, un paesino del Salento, a sud di Lecce, il grande aedo Ucciu Aloisi. La sua storia è narrata dai mille concerti tenuti in tutte le piazze del sud, in ogni sagra o festa paesana, quando si presentava l’occasione di cantare le gesta non dei grandi eroi, ma delle fatiche inenarrabili dei contadini, della povera gente che si sforzava di riuscire a vivere e che trovava solo nel ritmo irrefrenabile, cadenzato delle canzoni, la vaghezza di perdersi. Quel sollievo necessario a sopportare le sofferenze, la rudezza tipica della vita popolare, ma non di meno colpivano anche, nelle espressioni e nelle immagini dei suoi testi, il calore e la passione di uno sguardo, di un amore fugace, così come l’invito a danzare ritmi forsennati, un piroettamento senza fine delle tarantate, portate alla cronaca antropologica da Ernesto De Martino, nel suo celebre saggio “Sud e magia” del 1952. Nel suo nome Ucciu, diminutivo di Antonio o Raffaele, divenuto esso stesso tipico nome salentino, e nel cognome dalla vaga discendenza grecanica così come nel suo volto squadrato, essenziale, acuto, come fosse il contenitore di una voce non melodiosa ma cantilenante quasi imitasse la metrica antica, c’era tutto il personaggio. A vegliare Ucciu, che è giunto all’ultimo viaggio all’età di 82 anni, c’erano tutti i suoi eredi musicali, quei giovani che lo ricordano per la sua leggera ironia, per la prontezza di spirito, per la battuta pronta e salace, ma soprattutto per il vocalizzo e per il gorgheggio della voce. Ecco perché la sua fine lascerà tutti un po’ più soli, orfani dell’ultimo grande cantore che insieme a Uccio Bandello e a Uccio Melissano aveva costituito il grande complesso di musica folk degli “Ucci”. Le potenti espressioni del canto e il ritmo sostenuto della fisarmonica, le note stridenti del violino e le percussioni potenti dei tamburelli accompagnavano la tarantata, ridotta in trance dal ri/morso del ragno. Solo il ritmo indiavolato della pizzica accompagnato dalla danza taumaturgica riusciva ad espellere il veleno inoculato dal ragno e a liberare la vittima, risanandola. Ucciu Aloisi era considerato da tutti i giovani il depositario della tradizione. Per questo all’annuale Festa della Taranta, in agosto a Melpignano, i giovani lo applaudivano incessantemente, forse temendo data la sua età una fine imminente. Certo la pizzica ha ormai valicato lo stretto territorio del Salento per giungere in tutte le piazze dell’Europa, finanche in Cina, a rimorchio della Fondazione che ha rinnovato la tradizione, ma sempre mantenendo vivo quel canto che assumeva nelle cadenze il ritmo del suo stesso lavoro nei campi, quel lavoro di cavatore, quella durezza dell’esistenza che si scioglieva in un’armonia musicale che ha forgiato le esistenze ed ha costituito la migliore testimonianza e un grande esempio. Di un maestro che non ha mai avuto la pretesa di insegnare, di un uomo che ha dedicato una vita alla canzone popolare della pizzica, un Omero moderno delle genti diseredate del sud che sanno dare il meglio di sé nell’arte, nella musica e nel canto. Rimasto legato a quel cantare popolare ha raccolto le sue canzoni in quel memorabile cd dal titolo “Robba de smuju”, titolo intraducibile in italiano, ma che all’incirca ha il significato di canto che fa ribbolire il sangue e da quella raccolta è nato il suo gruppo di otto elementi, che con lo stesso nome continuerà il suo percorso culturale e umano, ben sapendo che Ucciu non li abbandonerà mai.
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