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mercoledì 28 aprile 2010

Cacciatrice di rumori tratto da Forse tu sì. Storie minimali di Francesca Bertoldi (Lab - Giulio Perrone editore)





















È il primo settembre che passo qui, camminando con due buste della spesa tra le vie di questo quartiere popolare ricco di profumi, ricco di volti spessi carichi di storia. È quasi sera, e dopo il caldo sfibrante di questa strana estate sento il “venticello di Roma” che mi scosta una ciocca di capelli e dispettosamente mi copre gli occhi… provo a soffiare come facevo da bambina, spingendo l’aria su e sporgo il labbro inferiore, so di essere buffa e poi non mi riesce; devo fermarmi, posare un istante le buste a terra… scostare il ciuffo con la mano e in quell’istante l’odore della strada mi investe, intriso di antiche tradizioni. C’è un profumo di pane appena sfornato che si mescola a quello di un ragù che si consuma su un fornello che io immagino esiguo, modesto. Uno sciame di ragazzi mi travolge quasi, le loro risa si ammucchiano, si amalgamano impastandosi in un unico vocio danzante. È la sera che si avvicina accostandosi al giorno che muore e le cede il passo, e il quartiere si anima di giovani vite mentre le vecchie alle finestre sostano a lungo spiando la vita nuova e brontolano per il gran baccano che, ormai lo sanno, durerà fino a notte. È il primo settembre qui e settembre quest’anno mi mette la smania addosso, un’impazienza che non ha ragione, della cui origine vengo a conoscenza poco a poco e che colora tutt’intorno come con mano abile, affrescando la vita. Non era così là, nel grande appartamento immerso nel verde con l’eterno sottofondo delle cicale che fino a settembre, sbattendo le piccole ali, continuavano a “cantare” dall’alba al tramonto confortate dal caldo, fino a quando non arrivava la sera ed “attaccavano i grilli”. Non la sento più quella “musica”. Ma lo immagino a volte quel suono, e ragiono su quella casa buia, vuota, abitata da ombre e da ricordi, con i muri intrisi di parole di anni in una metafisica collisione di senso, e penso al sole che al suo rientro le renderà ancora giustizia e con la luce torneranno a stornellare le cicale anestetizzate dalla notte. Invece qua niente frinire; ma io amo i rumori della città, quelli assonnati che accompagnano l’inizio delle attività, borbottii, mormorii, sospiri e sbuffi, quelli vivaci con l’andar del giorno e quelli che accompagnano l’ingresso della sera che si accende di lampioni e quelli della notte, pungenti, acuti come lamenti. Li amo. Di più, sono ormai cacciatrice di rumori, impegnata al massimo nella cattura di ogni “esemplare”, di ogni frequenza, tendo l’orecchio agli scambi sonori, immagino il paesaggio urbano anche dietro le mie finestre chiuse e identifico i fatti che li hanno procurati. Rumori che per me sono come suoni, un’esaltante concerto di fragori. È la musica dei frastuoni questa che oggi fa da sottofondo alla mia vita, mi accordo con essi scoprendone le consonanze, l’accostamento, li combino insieme in una perfetta armonia con estrema naturalezza, modulando poi a modo mio le tonalità, ed essi rifrangono in un avvicendarsi fluido ed emergono dal silenzio più o meno chiari secondo la distanza: brusii di passi veloci, 18.19 affrettati, o schiamazzi festosi di giovani immersi nell’affollamento notturno.

Una nuova musica continuamente variabile; il suono puro, sottratto per il mio piacere e restituito al suo contesto. Il vociare si ammassa quando spengo la luce e mi sdraio. L’atmosfera è sospesa per un attimo. Poi il sonno, piano, dirada i rumori e li ingoia. E solo allora mi assale il ricordo del silenzio, e lo affido al racconto.

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