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venerdì 2 ottobre 2009

Gabriela Fantato, Codice terrestre (La Vita Felice edizioni). Intervento di Massimiliano Martines

Ci sono frutti che si lasciano addentare già al primo impatto della vista, sono semplici, dalla scorza sottile ma commestibile, al pari della polpa. Mele, pere, ciliegie... doni della terra, della cui frequentazione la nostra esperienza di vita ci ha ampiamente abituato. Altri frutti sembrano invece planare da pianeti alieni, così inusitatamente colorata e originale ci appare la forma, si presentano spesso in gusci difficili da rompere, senza incorrere quantomeno nel rischio di disfarne la spesso esigua polpa. Anche il sapore è qualcosa cui non siamo avvezzi e subito ci colpiscono per rarità e mistero, misticismo suggerirebbe un palato fine. Codice terrestre di Gabriela Fantato ci riporta a questa associazione e in particolare all'immagine del fico d'india, frutto della cui presenza difficilmente si riesce a fare l'abitudine, per via dei suoi urticanti e sottilissimi aculei. Il gusto di tale esotica delizia, a differenza di tante altre, si può quasi afferrare e descrivere, se non fosse per i duri e numerosi semini, intorno a cui si concentra la polpa, che rendono tale operazione più ardua, dovendo la masticazione districarsi nel loro pugno fitto. Siamo avvertiti sin dall'inizio: afferrare senza precauzioni è un istinto naturale, come il mordere del figlio il dito del padre per prendere confidenza coi “perché” della vita, quel retrogusto persistente e amaro.., così l'addentare il frutto con la pungigliosa scorza. Eppure una volta acquisita la coscienza della materia, passando d'obbligo dalla dolorosa esperienza, non resta che armarci degli arnesi, “geometria della fatica" e "rabbia sottile” sembrano suggerirci i versi della Fantato, che soli ci possono aiutare nell'impresa. Con la forchetta della fatica e col coltello della rabbia possiamo prepararci a schiudere la “dolcezza che fa male”, un segreto ancora invelato, come quello “dove la corteccia si piega, abbraccia il legno e i nodi” e dove “le formiche rosse ci fanno la tana”. Non sappiamo difatti nulla di quel che ci aspetta ad ogni apertura. Così infilzato il fico d'india, siamo ora pronti a procedere col taglio della spugnosa e ovoidale scorza, badate bene: un'incisione precisa e netta! Non prima però di averne reciso i due estremi poli, varianti di poco differenti a uno sguardo disattento. Questi, nello schema dell'autrice, sembrano corrispondere a un ostinato andare dentro le cose da un lato, e a uno scivolare delle cose nelle e dalle cose, come se tutto fosse conseguenza e origine di ciò che l'ha preceduto, in un girotondo da cui è difficile rintracciare il punto di partenza, il filo della matassa, a meno che non si guardi nel mezzo del cerchio per ritrovarvi il poeta che tutto pote e tutto muove, quasi fosse un imponente Tiresia dagli occhi sbiancati e dalle mani tese a carpire e penetrare realtà e segreti. Dopo l'avvertimento a non mordere la scorza di “Una geometria, forse”, poema che apre la silloge, e la predisposizione alla tattica degli arnesi, della sezione “Un bacio dopo l'ultimo”, siamo ora preparati a rimuovere il guscio, a svelare il corpo essenziale del frutto, la polpa; possiamo poi procedere oltre e, con “la gioia che manca”, finalmente godere di questo aperto segreto. Eccoci allora nel disegno senza scampo di una cena al lume della "grazia del dimenticare", al cui cospetto non resta altro che piangere, solito appuntamento che si rinnova!, pari al piangere del cielo ad ogni undici di agosto. Possiamo prendere e mangiare, questo corpo è dato. Non ci colga impreparati il rimpianto, semmai la dolorosa constatazione del perdono mancato, per l'amarezza di quel primo avventato morso, originale peccato (ma non peccato originale, frutti ben più domestici, come già accennato all'inizio, porterebbero a questa pista). Con la succulenta polpa ci tocca mandar giù tutti i semini, districando lingua e mascella, affinché, alla stregua di parole non dette, non si conficchino tra i denti, nella zona remota, in fondo ai molari. Il perdono non dato... le parole che abbiamo trangugiato, il senso di un pianto asciutto, secca piega della pelle. Nella penultima sezione, “Per un addio”, il codice terrestre, nella consapevolezza del limite, svela la vacuità delle rassicuranti geometrie, componendosi definitivamente, come il punto, il semplice momento in cui prende la parola il volo, dopo una faticosa estenuante rincorsa: siamo “dentro la terra alla fine”, dentro a un'altra cosa ancora, l'ultima, la prima, il “terzo livello” che, nella perfezione di un eterno ritorno, va a ricongiungersi al primo movimento, quello quasi scordato, mai scordato in effetti, solo lasciato dietro il "giro delle spalle", nella distrazione della fatica e della rabbia, di tutto ciò che ha offuscato il senso, la ricerca.

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