La mia ignoranza, non conoscenza della vita e del mondo nuda di qualsiasi autocompiacimento (il mito del buon selvaggio è una cazzata, da quello che non si sa non nasce mai niente di buono) è anche mancanza di idonei strumenti culturali a decodificare buona parte della produzione artistica che mi circonda. Voglio dire: esistono cose davanti alle quali ci si può accostare comunque, a prescindere dalle basi che uno ha, se passi due ore in un cinema Cronemberg o Herzog o Lumet o Kurosawa ti parlano, e capirai di più o di meno, ma capirai, comunque, uscirai e terrai tra le braccia qualcosa, fossero anche lacrime o rabbia cui non sai dare un nome. E lo stesso vale per alcuni libri, puoi immergerti fino a raccogliere la sabbia sul fondo o guardarlo dalla superficie attraverso una maschera da 2 soldi, ma se sono buoni ti perseguiteranno, per un pezzo o per la vita, fioriranno di domande e di risposte e ti scoprirai diverso, altro prima e dopo “loro”.
Non è così, e mi spiace, per la poesia. Oggi pomeriggio sostenevo accanitamente che fosse uno scandalo il mancato spazio che ha nell’editoria e sugli scaffali, e stasera mi ritrovo con in mano un libro che mi lascia fuori, né più né meno come quelli di algebra che mia sorella ha accatastato qui, sul tavolo della sua cucina, fitti di annotazioni incomprensibili, cancelli chiusi dietro cui non vale implorare. I suoi teoremi – a margine di alcuni è scritto “caso banale” – semplicemente per me non hanno senso, come lo spagnolo e il baseball e tutti i riferimenti che inzuppano queste pagine, ancor più che non sono riportati i versi che commentano, e che magari mi avrebbero parlato, Sylvia Plath, e Auden ci sono riusciti, e anche Ungaretti, Saba, e alcuni Haiku, abbastanza democratici per rivolgere la parola anche a un illetterato camionista, cani feroci che si sono fatti accarezzare. Ed è un peccato, perché c’è scritto introduzione alla poesia di Guido Oldani, nel sottotitolo, e un’introduzione dovrebbe avvicinare, non ringhiarti contro: invece è un rompicapo per iniziati, che non ammette chi non ha lauree e dottorati e un background che gli consenta di capire (che il campo si chiama diamante, che quelle mattonelle sono le basi, che c’è uno che lancia una palla e uno che deve colpirla con una mazza e viene eliminato se la manca 3 volte, etc. etc.). Peccato, perché i pochi versi riportati mi tagliano in due, anche se non ci vedo collegamenti con Dante, Petrarca e Pavese : perché uno che parla d’amore come fa Oldani in “A quattr’occhi” sintetizza il destino di tutti, dai sogni avventurosi di quando eri bambino al letto in fiamme di cui canta Blixa Bargeld in cui ti addormenti naufrago, se c’è qualcuno che può e vuole stringerti. Straordinario Oldani, nell’intuire che davvero il nocciolo di tutto (vita/mondo/sentimenti) sia irraggiungibile con le parole, che possono solo metterci sulla strada e al contempo sono zavorra, ci ostacolano, come quando guardi una donna e quello che provi in quel momento è troppo grande perché tu possa contenerlo, e qualsiasi cosa tu dica non può tirare fuori in tempo ciò che ti fa esplodere il torace, larva che si nutre distruggendoti: solo la scena dell’alveare di Aliens, i coloni nei bozzoli cui Vasquez pietosamente spara, può dare l’idea di che sia, l’amore. Straordinario Oldani, che accetta i limiti della scrittura eppure si spinge oltre le sue colonne d’Ercole e ne scardina le regole, la sintassi che padroneggia al punto di farne a meno, di riscriverne una sua, che ha le parole composte del mio tedesco e i suoi costrutti tratti dal latino, come se non bastasse il resto a colpirmi al cuore. Cazzo, leggetelo: leggetelo e mi arriverà addosso come un treno, e vaffanculo se – come me – non avete finito le superiori. Perché è uno che parla del nostro tempo, delle nostre storie, inclusa la ruffianeria dei leccaculi (“Le sedie) e non rimpiange i riti barbari del passato, no, solo li riconosce edulcorati nel presente (“Il brodo”), è uno che si protegge dalla disperazione con l’ironia, come i più grandi, come Pirandello, eppure che vede con gli occhi aperti, sempre, tutto: il guiccirdinismo italico (“La pace”) e persino il placebo della religione, pur senza mai mettere di credere davvero in un dio che sia più di una “betoniera”. Cazzo, leggetelo: leggetelo e vi lascerà quello che potete prendere, il che sarà comunque abbastanza. Mi correggo: la poesia non è diversa dai film o dai libri, se è buona è buona, e fa male uguale. Perché fa sempre male uscire dall’ignoranza, fa sempre male crescere, capire. Certo, di questo libro qui mi restano oscure molte parti (ci sono persino note in cirillico) ed è un peccato. Però, adesso. Oldani so che esiste, e alcune sue parole mi restano, altro asfalto della mia personale autostrada, lui sta lì dentro di me, da qualche parte, omaccione che ride di sé stesso e rivendica la sua libertà che lo fa leggero divenire mentre, scarabeo, appallottola la bruttura del mondo perché ne venga fuori qualcosa (“Autoritratto”). Tenendo per mano Kureishi e Roth e Palaniuk e Kurosawa e Ferrara e Cronemberg e gli altri, tutti quelli che ho incontrato in una pagina o un fotogramma, tutti quelli che mi hanno fatto ridere e piangere e trovare il cazzo di coraggio di cercare un senso, com’è destino di qualsiasi uomo.
GRAZIE OLDANI - ALLA ROVESCIA DEL MONDO DI AMEDEO ANELLI letto da Silla Hicks
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