
Diciamo subito che la scrittura di Rovatti non entra esclusivamente nel merito dei contenuti scientifici di tale pratica, come invece succedeva nel saggio di Galimberti, che offriva una ampia e puntuale rassegna dei tropoi e delle ancillarità che la consulenza filosofica riconosce al sapere umanistico e dei punti di differenziazione con la clinica delle psicoterapie. Il pamphlet di Rovatti potrebbe esser meglio definito all’interno di quella tipologia editoriale che in passato si suoleva definire “saggio di costume”, in quanto, alle riflessioni che entrano esplicitamente nel merito dello statuto disciplinare del counselling, si unisce l’arguta mise en place dello stato dell’arte dei corsi di Laurea di Filosofia, oggi, e il sarcasmo, molto più che legittimo, nei confronti dei meccanismi di strozzamento delle carriere dell’aspirante insegnante di filosofia e di baronato e cooptazione dei percorsi di immissione al ruolo all’interno delle lobbies accademiche.
Il titolo del saggio è programmaticamente interlocutorio: alla domanda la filosofia può curare?, la risposta dell’autore è, senza mezzi termini, “dipende da cosa si intende per cura”. La faccenda della concettualizzazione del termine cura è infatti centrale per Rovatti, secondo il quale siamo immersi e andiamo sempre più immergendoci in una cultura terapeutica che dal mondo angloamericano si sta estendendo pervicacemente anche al modo di sentire di una Europa sempre più malsicura e spaesata, in cui si sta cristallizzando la sindrome, tutta statunitense, della proliferazione delle pratiche più variegate di assistenza psicologica, la cui domanda si è moltiplicata sulla base di uno scenario caratterizzato dalla vulnerabilità dell’individuo e dal “deficit emotivo”. La parola “cura” si tira subito dietro la parola “terapia”, scrive Rovatti, e proprio questa tendenza alla medicalizzazione del sentire e di una presunta guarigione normotipica, si dovrebbe scagliare la filosofia, perché il suo compito e stato sempre quello di smascherare i poteri forti che proprio sotto l’egida di una mentalità “da guarigione del sentire” conservano il proprio status e le proprie discrezionalità, come teorizzava Foucault. La pratica della filosofia dovrebbe innanzitutto liberare il concetto di “malattia” dalle sovrastrutture ideologiche che ne alimentano l’illusorietà e ne ingrassano gli effetti di governo delle anime, come accade negli uffici meglio arredati dei grattacieli di Wall Street, in cui una massa di coach, counsellor e guru d’ogni sorta, insegnano ai manager quarantenni con il conto in banca straripante e il colesterolo alto, a sentire le “giuste sensazioni” per migliorare il marketing dell’azienda. La filosofia, allora, può curare a patto che il farmaco in essa contenuto, sia, nella sua accezione semantica più antica, prima di tutto un veleno e non una medicina. Un veleno che il consulente filosofico (sulla cui formazione e immissione nel mondo del lavoro, peraltro, Rovatti non è affatto contrario, soddisfatte alcune condizioni) dovrebbe instillare continuamente nei cosiddetti consultanti – siano essi singoli o aziende –, poiché dalla saggezza e dalla maieutica non dovrebbe venire alcuna consolazione in quanto tale; egli, al contrario, alle domande di un senso solido dell’esistenza, «si troverà nella situazione di smontare o decostruire pazientemente le sue attese, in vista – forse – di un nuovo scenario in cui parole come “rischio” e “spaesamento” dovrebbero funzionare, piuttosto che come sintomi di un disagio, cioè di qualcosa da curare, come aperture di esperienza, cioè – paradossalmente – come la cura stessa o un suo primo affacciarsi». Parole, queste, che sintetizzano l’intero spirito del libro, rendendone gli esiti e il messaggio molto più forti e legittimati di tanta letteratura del settore che poco incide sulla freschezza di tale riflessione e che spesso, spessissimo, tutela, ancora una volta, interessi di casta, come accade nelle numerosissime associazioni, scuole e master che tentano (spesso pretenziosamente) di insegnare a “praticare” la filosofia nella vita di tutti i giorni, imbastendo tecniche e stilando manuali puntualmente stroncati dalle letture critiche più intelligenti e libere. Oggi, infatti, entrare nei percorsi formativi che rilasciano il diplomino di consulente filosofico, significa sborsare parecchie migliaia di euro solo per acquisire materiale didattico, studiare libri e imparare strategie dialogiche di discutibili premesse scientifiche, un’attività lunga e dispendiosa, come spesso succede nel panorama delle formazioni professionalizzanti, dalle scuole SSIS ai corsi abilitanti di enti privati. E in questo scenario, osserva Rovatti, si alimentano le speranze di giovani laureati in Filosofia che vedono la messa in pratica del sapere “immateriale” accumulato nei loro anni universitari, sempre meno attuabile nei percorsi tradizionali (l’insegnamento su tutti) e che, dunque, tentano di rendere utilizzabile in una pratica che, tuttavia, sarebbe sicuramente utilissima nel mondo del lavoro e, lungi dal provocare danni di sorta, se improntata a quel “senso di sospetto” che la filosofia dovrebbe raffinare, non porterebbe che giovamento nell’esperienza di verità che il pensiero, come cura di sé, detiene.
Nessun commento:
Posta un commento