Il motivo per presentare al lettore italiano Il presidente nero [...] sembrerebbe quasi ovvio, nell’anno della campagna elettorale di Barack Obama, John McCain, Hillary Clinton e Sarah Palin.
Diceva Aldous Huxley, nella prefazione del 1946 al suo Brave New World, che un libro sul futuro, qualunque sia la sua qualità artistica o filosofica, ci interessa solo nella misura in cui le profezie che contiene possono avverarsi o no. Ebbene Il presidente nero [...] fu scritto quando neanche l’egemonia mondiale degli USA si poteva considerare così ovvia [...] e già ci parla di una società futura in cui vige il telelavoro e il voto telematico, l’opinione pubblica si orienta leggendo giornali proiettati su schermi luminosi presenti in ogni casa, l’elettorato ha accantonato la lotta di classe e si identifica con i suoi leader secondo sesso, colore della pelle e fotogenia, mentre è in corso una campagna elettorale in cui, a contendersi la Casa Bianca, ci sono un conservatore bianco, un leader nero e una donna. [...] Ma Lobato non prevede solo questo. Prevede lo shopping e l’università a distanza, le ferie coniugali (cioè brevi separazioni periodiche in luogo del divorzio), i villaggi turistici, la dittatura sociale della moda e quella domestica del bambino. [...] E a proposito di capitalismo, Lobato vede nel fordismo e nell’industrialismo americano la fine dei contrasti fra capitale e lavoro; considerazione che oggi molti sottoscriverebbero e molti altri non riuscirebbero a leggere senza sorridere o inorridire. Ma tra il sorridere e l’inorridire si annida appunto una delle questioni cruciali che la lettura di questo libro solleva. Come valutare la distanza tra l’autore e la materia trattata? Fino a che punto il futuro descritto è auspicato e fino a che punto temuto? Questo è infatti un libro in cui il teorico della letteratura interroga il testo e domanda al suo autore empirico: “Ci fai o ci sei?”
Monteiro Lobato, va detto subito, con questo romanzo si guadagnò la fama di scrittore razzista, non tanto (o non solo) per la sua visione stereotipata delle razze, quanto per le teorie eugenetiche che circolano in queste pagine. Ma un libro sul futuro si fa leggere innanzitutto se propone profezie realizzabili (anche se dovessero far più paura ai lettori che al profeta) [...].
Sull’eugenetica, la dottrina formulata da Francis Galton per “migliorare” la razza umana, forse si sa molto e molto poco [...]. Quando alla fine degli anni ‘10 viene introdotta in Brasile, l’eugenetica sembra dare inizialmente voce, nella sua versione più moderata, alla necessità di migliorare le condizioni igieniche delle classi più povere, tanto nei suburbi come nelle campagne. Tuttavia, il suo côté razzialista, pur non provocando l’orrore dei campi di concentramento europei, genera un dibattito che oggi, se non scandalizza, fa quasi tenerezza. Nel paese meticcio per eccellenza [...] intellettuali e scienziati brasiliani si domandavano se la condizione creola del loro popolo non l’avesse per caso reso inadatto alle sfide della modernità [...].
L’incontro di Lobato con l’eugenetica avviene in questa fase. Più che un intellettuale “impegnato”, nel senso che si dà oggi al termine, lui è un intellettuale impresario. Per tutta la vita non farà che realizzare o teorizzare imprese, affari, linee guida economiche, investimenti [...], abbraccia e respinge con disinvoltura vari credi. Compare sulla scena letteraria con una polemica contro il caboclo, il contadino di ascendenza india che vive di un’arretrata agricoltura di sussistenza, descrivendolo come un fungo, un parassita, ma negli anni ci si affeziona e ci ripensa, scoprendo coi marxisti che è uno sfruttato; idolatra l’economia USA, ma ammira anche Lenin; apprezza il ruolo della donna nella rivoluzione sovietica, ma maschera di sarcasmo la sua antipatia per le suffragiste inglesi; critica gli artisti connazionali che imitano il Futurismo, ma tesse elogi marinettiani alla guerra igiene del mondo; spera che l’eugenetica possa effettivamente purificare il sangue brasiliano, ma non esita ad osannare Gilberto Freyre, il sociologo che a New York, con Franz Boas, aveva imparato a distinguere determinismo razziale da influsso culturale e ravvisò proprio nel meticciato l’identità del Brasile e del colonialismo lusitano. Teoria, questa, che se ha a sua volta rischiato di generare l’idea autoassolutoria di un colonialismo buono, ha anche avuto il merito, fra gli altri, di estrarre il Brasile dalle sabbie mobili di ridicoli complessi d’inferiorità, incamminandolo verso quell’orgoglio creolo che oggi si ritrova un po’ dappertutto, dal pensiero sociale alla musica popolare. È il Brasile sincretico e multirazziale cantato da Vinicius de Moraes (“bello come la pelle soffice di Oxum”, la venere mulatta del candomblé), ma anche quel microcosmo misto eppur rigorosamente gerarchizzato, con le sue balie ingenue e i negri da cortile, che ritroviamo proprio nella letteratura infantile di Monteiro Lobato.
Per lui il paradosso statunitense sta proprio in quella sorta di segregazionismo rigido e tuttavia fortemente egualitario, coerente e democratico fino ad affacciarsi sull’abisso di una nuova guerra civile. [...] Una visione del melting pot a stelle e strisce in bilico fra utopia agghiacciante e distopia involontaria, tra profezia catastrofistica e wishful thinking in agguato. Dunque a un delirio letterario come questo si può scavare una nicchia in quel subgenere della fantascienza che è il romanzo distopico, proprio accanto a Brave New World o 1984, con buona o cattiva pace del suo autore empirico e dei suoi coinquilini anglosassoni. Perché, quale che sia l’adesione della persona reale alle idee delle sue personae, certe affermazioni – che rappresentano oggi un curioso florilegio di dottrine protonaziste – poste in bocca a una perturbante Beatrice ariana, frullate in una trama romanzesca improbabile, punteggiate di svenevoli commenti amorosi di un timido travet carioca che ascolta basito aneddoti giunti direttamente dal futuro remoto, oggi suonano a “modeste proposte” swiftiane e sembra davvero impossibile, quando il climax narrativo porta il delirio ai suoi piani più alti, pensare che non si rida anche un po’ col (e non del) loro autore.
Marcello Sacco ha curato la post-fazione al volume
Il presidente nero, Controluce, Nardò 2008
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