Mia sorella è un matematico, ma lavora in un ufficio per campare, e rincasa tutte le sere per le sette a trascorrerle giocando al computer con la TV accesa, sempre lo stesso gioco, un solitario preistallato con le carte chiamato “spider”.
Non so come faccia, ogni sera, anche se no, non si può parlare di divertimento, sarebbe più esatto dire che continua a giocare, caparbia, gli occhi sospesi tra il verde e l’oro - il viale di platani su cui in un’altra vita andavamo a scuola – fissi vanamente allo schermo, per ore intere.
Lei dice che la TV le fa compagnia, che è un rumore di sottofondo, ma non è vero: so che segue ogni fotogramma, perché poi me ne parla, spezzoni dei miei film sul suo vecchio mivar, ricorda ogni parola dei dialoghi senza neanche leggere i sottotitoli e frattanto macina punti, ogni sera per sette sere la settimana e trenta o trentuno al mese e trecentosessantacinque o trecentosessantasei all’anno, gli occhi fissi, così che non mi accorga – io, l’invasore del suo minuscolo spazio arroccato di fotografie – che sta piangendo.
Non dice niente, e frattanto beve la sua infima lager da 2,99 la cassa, e fuma le sue diana blu, o anzi fumava, perché adesso ha smesso, per fargli piacere.
Mia sorella che sa a memoria centinaia di teoremi e mi ha spiegato l’algebra coi fagioli quando io facevo la terza superiore e lei la seconda media fissa lo schermo, e le lacrime le rigano la faccia: è una donna abbastanza alta, almeno per la media di qui, 1,69 c’è scritto sul suo passaporto, nel quale ride ed è bellissima con i capelli quasi rasati di un biondo che assomiglia al mio, il giorno prima che partissero per la Grecia, quando mi chiamava ogni tanto e pensava di poter sopravvivere senza di me, anche se non ha mai imparato a nuotare bene.
Ma adesso li ha sono tinti di un rosso improbabile ed è solo piccola come il resto del mondo, uno scheletro che ha sempre freddo e porta i miei maglioni che le arrivano alle ginocchia anche d’estate.
Scrive numeri ovunque, finchè “dura l’intuizione” ripete, e che sarà quest’intuizione io non l’ho mai capito e la venero, per tutto quello che sa vedere che io nemmeno immagino.
Senza chiedermi niente sa tutto e ogni tanto mi fa una carezza, come quando eravamo bambini ed ero il suo fratello maggiore, che non le avrebbe mai lasciato la mano.
Adesso, che siamo due naufraghi aggrappati alla stessa zattera, io sono quello più grosso e più forte, che sa trattenere il fiato più a lungo, quello che vinceva le gare e voleva essere il miglior nuotatore del mondo: per questo mi guarda disperata, e a tratti penso persino che mi odi, perché non mi decido a riprendere a nuotare, io, che ho le braccia e i polmoni per continuare a farlo.
Non ho la forza di dirle che non ci riesco più.
Che ogni giorno è più difficile anche solo stare a galla.
Per lei, sono ancora un ragazzino di dodici anni alto quanto un uomo adulto, che si allena sei ore al giorno e respira il cloro con le branchie che porta nascoste sotto la pelle, e ascolta i Van Halen, e si è forato da solo le orecchie, davanti allo specchio, mentre lei – che ha solo sei anni – è seduta sul bordo della vasca e ride e dice che non è possibile, che nessuno ha tanto fegato da fare una cosa del genere, nessuno a parte me, che sono il fratello maggiore più fico del mondo.
Mia sorella, che non sa andare in bicicletta e guida a stento la sua carriola arrugginita, ma che fa a mente le radici quadrate e si è laureata studiando di notte, perché lavora minimo otto ore al giorno da quando aveva diciannove anni, mia sorella, che è capace di fare un esame di mille pagine in meno di una settimana e di prendere trenta e fa tesi di laurea in qualsiasi materia in pochi giorni per chiunque glielo chieda, ogni sera fissa lo schermo e clicca sulle carte, e la sfida è quanto in fretta e quanti punti, avrà fatto milioni di partite, mentre io fatico a completarne una di livello base, quando ci provo.
Ma lei no, lei compone il mosaico con la facilità devastante del genio che le è stato regalato invano, perché abbaglia tutti in pochi minuti, ma non le serve a farlo tornare: e quando le bottiglie sul tavolo sono tre o quattro – a volte persino meno - smette di nascondere le lacrime e piange, finalmente, si accartoccia sul tavolo della sua cucina e smette di pensare mondi interi in cui i numeri sono personaggi, con una faccia e vestiti e parole. Al modico prezzo di massimo un euro e cinquanta, mia sorella piange, come qualsiasi idiota, come piango io.
Le lacrime le schiariscono gli occhi, e parla solo tedesco, e piange e mi racconta, di quello che le ha detto al telefono, e dei suoi capelli e persino dei suoi piedi: vorrei dirle che nessuno può essere così coglione da lasciarla per sempre, ma non ho il coraggio di raccontarle bugie.
Così l’abbraccio e basta, e se va bene mi ricordo di essere un uomo e di non potermi lasciare andare altrettanto, altrimenti singhiozziamo assieme, nella nostra lingua, e penso che io sono 0 negativo e anche lei, e siamo tutti e due mancini, ma che non può bastare questo a farci tanto uniti, perché non è questione di sangue e nemmeno di geni, non può esserci una soluzione così banale all’enigma immenso che ci ha fatto fratelli.
Se avessimo avuto vite decenti, saremmo rimasti lontani, una volta liberi da quell’infanzia che ci aveva imposto uno all’altra.
Ma adesso che respiriamo l’odore di napalm dell’attesa non abbiamo altra scelta che tenerci per mano, e viviamo nella stessa casa e nello stesso armadio, le mie maglie XXL accanto ai suoi vestitini che andrebbero bene a una bimba, perché mia sorella non mangia, e beve a stomaco vuoto: per questo si ubriaca tanto presto, anche con la birra dell’Eurospin.
L’amore le ha mangiato il cervello, e adesso i suoi numeri sono l’unico amico che ha, a farle compagnia. E’stata bellissima, ora è un uccellino sparuto che potrei tenere nella mano, se non fosse un pitbull rabbioso, che non vuole carezze: quando sono partito stamattina dormiva ancora, accartocciata sul tavolo: generalmente non si corica neanche, si fa solo una doccia prima di andare al lavoro, anche se non glielo dice, ma anzi scherza al telefono quando lui – se ne ha tempo e voglia –si decide a chiamarla, e vuole sembrare ad ogni costo una dura, un vero soldato, che non ha paura di niente, che non si arrende mai.
E infatti quando apre gli occhi è di nuovo così, anche se sta quasi sempre tanto ripiegata sulle proprie spalle da non arrivare a un metro e mezzo, e più che una macchina da guerra sembra una bambola rotta, con lo sguardo che asciugandosi si è scurito dietro agli occhiali macchiati di tinta dei capelli, ma che hanno comprato assieme e per questo non vuole cambiare: e per sembrare più cattiva sporge in fuori la mascella, lei che avrebbe la faccina tonda, e affronta il mondo, ogni giorno, tenendosi tutto dentro fino a sera.
Quando torno, sta stirando o pulendo il cortile, o lavando per terra, inginocchiata, mattone mattone tutto il pavimento di ceramica bianca che si sporca anche solo a guardarla, come per scrostare tutto lo sporco della sua vita e della mia: mi chiama sempre per nome, con il mio nome da antico romano che è un nome da avversario, che io odio ma a lei piace tanto, perché ama gli sconfitti della storia, e poi quel nome ce l’ho quasi solo io. Lei ha un nome comune, invece, che non sopporta, perché sa di poesie e non ci trova niente di poetico, nella vita: avrebbe voluto chiamarsi Irene, o Vanessa, il nome delle sue attrici preferite, avere lineamenti forti piuttosto che una faccia da bimba incredula, non riesco mai a dirle che è più tosta di loro, più bella di loro, perché è ancora qui, ed è ancora viva.
Perché sa la sua matematica, ma anche un sacco di altre cose, perché ha il QI di due persone normali messe assieme, e ha fatto online i quiz del mensa, in otto minuti e due secondi – ne avrebbe avuto quindici a disposizione - ovviamente senza sbagliarne uno: adesso ripete che si è messo sotto le scarpe il suo talento, senza capire che non è qualcosa da cui si può abdicare soltanto perché lui non c’è.
Come chiunque voglia qualcosa senza la quale non può vivere – un rene, un cuore, una donna, un uomo – non è capace di dar valore a null’altro: solo con lui sorride, e quando gli parla esce nel cortile e guarda su, verso il cielo, lungo il loro albero, che è l’unico rimasto nella strada. Lo ha difeso da chi voleva tagliarlo per le sue radici sollevano i mattoni del marciapiede con la disperazione aggressiva della belva che vuole essere per sentirsi al sicuro e cui, se non l’avessi vista tante volte piangere, crederei anch’io.
Adesso lo guarda, e si ripete che lui è là, e cresce, anche se la vita ha smesso di continuare, per noi: l’albero è là, e prima o poi toccherà il cielo.
Mi invidia, perchè il mio lavoro mi porta lontano, mentre lei è ammanettata alla scrivania e a questo posto. Prima o poi, avrò il coraggio di dirle che non c’è un lontano che sia lontano abbastanza, e che non c’è più nessuna Germania, né nessuna infanzia, che alien ormai ci abita, e ci sta divorando da dentro per riprodursi. Prima o poi, riuscirò a guardarla e a dirle che anche a migliaia di chilometri io ti porto nel cuore, che posso vederti o no, sentirti o no, ma mai amarti di meno. Che proprio quando non ci sei ti tengo accanto, sul sedile, accanto a me, e mi volto verso te e ti parlo, ti racconto ogni cosa che vedo. Che non ti vedo, ma ci sei.
Tu, ci sei.
Anche adesso, che non so più dove sono.
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giovedì 18 settembre 2008
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