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martedì 23 settembre 2008

SAMUEL BARBER’S ADAGIO FOR STRINGS di Silla Hicks. Parte Prima ovvero la Cena che non c'è

Ci sono storie che non sono solo amore, ma una vita intera, in cui s’intrecciano tante vite, e ci si impara a conoscere e a spiegare. Ci sono storie in cui anche chi non ti ha mai accettato impara a capirti e se non a volerti bene almeno a stimarti per il genero imperfetto che sei, o che avresti potuto essere. Adesso lo so, che con tuo padre è successo, perché mi ha abbracciato e camminato vicino, nell’ultimo giorno in cui eravamo ancora noi. E per la prima volta dopo diciotto anni lo so che non ha visto solo un camionista senza studi né posizione ma gli occhi ferocemente fedeli di un cane da guardia, che avresti potuto uccidere senza che smettesse di leccarti le mani. E’ paradossale che sia successo adesso che è inutile, ma so che mi terrebbero alla loro tavola la domenica, con i miei stracci neri e senza la cravatta, e ascolterebbero le mie storie sorridendo. Tua madre leggeva Jorge Amado, una volta: ho conosciuto Gabriela nella sua libreria fitta di libri di ogni tempo e luogo, anche se non credo che lo sappia, né che immagini quanto quel mondo profumato mi abbia portato lontano. Potrei dirglielo, magari. Adesso, so che mi starebbe a sentire, perdonandomi per tutto il resto che non so imparare, per tutto quello che mi fa impresentabile, sempre, come sono io.

E tutto questo mi fa rabbia, sai. Mi fa rabbia la vita finalmente serena che avremmo potuto avere oggi, mi fa rabbia che sia sempre tardi, quando la guerra finisce.

Per questo – e per tante altre cose – mi sono chiesto che faccia avesse, lui che forse avrà la mia cena che non c’è, la mia frittura di calamari, solo anelli, anche se no, lui non è un tedesco, lui il pesce vero sicuramente lo sa apprezzare e non mangia fritturine da ignorante, quando ha la fortuna lussuosa di un ristorante da cui si vede il mare. Quello della fritturina – annaffiata di limone, così che il pesce si senta appena - sono io.

Io, che non gli ho mai voluto dare un volto perché non fosse mai reale. E che la sua faccia l’ho chiesta – a bruciapelo, ma non c’è altro modo di sparare – all’unica persona che potesse raccontarmela, l’unica che l’ha visto e che io conosca – no,anzi: di cui mi fidi - abbastanza da poterlo fare.

Sono uno stronzo, sì. Perché l’ho chiesto, e perché l’ho chiesto a tua sorella, e perché com’era giusto facesse – perché è tua sorella, ma soprattutto perché è stata mia amica anche quando non lo era nessuno – ha saputo volare sopra alla risposta, mi ha solo detto che non lo ricordava.

E mentre lo diceva era di nuovo la ragazza che ci ha ospitati entrambi a casa, quando non avevamo nemmeno da mangiare ma avevamo tanto amore da essere miliardari, e mi faceva trovare sigarette e il riscaldamento sempre acceso, e la notte lavoravamo tutti alla tua tesi di laurea, e ci addormentavamo alle cinque, sognando la Grecia.

E’ stata capace di dire che non ricordava, se è alto o basso, ha detto solo che ha una corporatura normale e i capelli scuri, testuale, e non c’è niente di più impossibile, perché lei disegna, e ricorda particolari di pale medievali e di strisce di Dylan Dog con la stessa facilità spontanea e disarmante, particolari piccoli e messi negli angoli, non nasi e bocche dentro a un volto umano.

Non ho insistito, e poi abbiamo parlato di altro, prima che partissi, mi ha lasciato andare con la speranza che non merito, è durata dieci chilometri, prima del buio, della disperazione vischiosa di cui il resto del mondo sembra immune.

Perché io lo so, dove stai stasera, e che per lui stai mandando a puttane tutto senza non dico rimorsi ma neanche rimpianti, che non ti frega più, di dove sto e di quanto fa freddo, ed è giusto così, se mi metto nei tuoi panni, ma se mi metto nei miei mi sento morire, e vaffanculo, cazzo, io nei miei ci sono, e non posso cambiarli anche se mi tirerei via la pelle a unghiate, per quanto fa male abitarla, in questo cazzo di momento che è un inferno eterno, che non ha inizio né fine, come te, come i miei ricordi.

E non mi resta che versare litri di dolore su questo pavimento, le tracce dei miei anfibi che non voglio cancellare, l’ultima – l’unica - traccia che sono esistito.

Perché sono esistito, cazzo, questo spettro è stato un uomo, ho conosciuto altro che non sia l’assenza, non sono sempre stato un pacco disperato e solo.

Ho avuto giornate e notti e anni. Soltanto, sono finiti, prima che finissi io.

Anche se ho visto film blu e un pezzo del decalogo. Anche se posso rivederli, ogni volta che voglio, senza neanche chiudere gli occhi.

Come nel testamento di Kubrik, eyes wide shut. Con gli occhi spalancati, a qualsiasi costo.

Per tutti i nostri film che non ha visto, ti supplico di tornare.

O almeno di mentirmi.

Non ho la forza di guardare ancora.

L’unica bellezza che resta al mondo è il sogno di svegliarsi ovunque sei.

Il resto, è solo un cumulo di macerie, e vaffanculo quale sia la bandiera che ci sventola, vaffanculo quanto sia grande il mondo. Io sono qui, io aspetto, nel nostro mondo. Ci sarò, quando ti deciderai a tornare, e il resto del tempo sarà la notte del terremoto di Volos, quando siamo usciti in strada e abbiamo visto l’alba, e la gatta coi gattini, e ci siamo abbracciati, e nella luce del sole abbiamo pensato che qualsiasi cosa fosse frattanto successa nel resto del mondo, noi eravamo ancora lì, eravamo insieme, ed eravamo ancora vivi.

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