Quando sei giovane, e ti senti il re del mondo, e non hai paura di niente perché pensi che dovrebbero essere loro ad aver paura di te, mentre una tegola ti fracassa il cuore senti il dolore, è ovvio, ma sei anche capace di aspettare che si rimargini, di star fermo e buono e non muoverti, finché non passa.
Ma quando ti guardi allo specchio, e ti rendi conto del perché nessuno ti chiama più ragazzo, e la faccia che ti fissa non è nemmeno più la tua, quando sei troppo stanco persino per farti la barba al mattino, e vaffanculo se hai una grattugia di spighe mal tagliate al posto della pelle, e ti infili a tentoni la stessa maglia che portavi ieri ed anche il giorno prima, e vedi un film fino alla fine ma non ti ricordi il titolo e nemmeno una scena, allora è tutta una altra storia, non pensi più che ne uscirai vivo, e nemmeno che ne uscirai più.
E pazienza se la gente pensa che sei forte, che potresti sradicare alberi e abbattere uomini con una testata: pazienza se qualche stronzetta ventenne dice persino che sei bello, con i tuoi occhi allagati di acqua trasparente e vuota, e vorrebbe portarti al letto, anche, come se bastasse scopare per spegnere il cervello: dieci anni fa svuotarsi i coglioni poteva anche bastare, ma adesso no, cazzo, non è più così.
Adesso guardo fuori che sta piovendo e mi sciolgo nell’acqua e non ci sono, o almeno non ci sono davvero.
Nei tergicristalli pezzettini di me attaccati alle gocce,e quando ti deciderai a metterli in ordine, a raccontare com’è andata per davvero.
Ma il fatto è che forse non lo so neanche più, com’è andata, non lo so e non me ne frega e vorrei soltanto che tutto si spegnesse, questa estate e l’autostrada e le code e la gente che va in vacanza, e questo nord che affonda in un monsone adesso, a ferragosto, la tempesta del secolo e io nell’occhio del ciclone, cazzo, almeno potesse portarmi via, su fino al cielo sopra al mondo di Oz per poi lasciarmi ricadere, con la motrice addosso, i miei anfibi che spuntano da sotto alle lamiere invece dei pedalini a righe della strega dell’Ovest e tu vestita come Dorothy che mi guardi stupita, la nostra vecchia Margot come il cagnolino spelacchiato Toto, e pazienza se quello era nero e lei è bianco sporco, chissà se te la ricordi, Margot, o se il tipo ha cancellato anche lei.
Ma invece non succede niente, piove e basta, e né questo né nessun uragano mi portarà da nessuna parte, e comunque sopra all’arcobaleno non ci abita nessuno, anche se io e te ci siamo stati, a volte, e no, non ci credo che non ci torneremo a vita, lui saprà la chimica e avrà una laurea e la faccia di Raul Bova, me l’hai detto ma non ci credo, e vaffanculo a lui e alla sua perfezione e vaffanculo alla sua generosità e alla sua intelligenza, vaffanculo, sì, perché è uno stronzo figlio di puttana sguaramazze del cazzo, e me ne strafotto se non è politically correct, io non lo sono.
Perché è vero che non c’è paragone, stavolta: non ci credo, ma lo so che lui è perfetto, un professionista, che parla una lingua sola e ha una sola patria e una statura accettabile e gli occhi di un colore vero, mentre io…sono solo me.
Un ignorante, una bestia con il cranio rasato e un cuore spezzato tatuato sopra al braccio: non sembro un principe ma piuttosto un wrestler deportato all’inferno, puzzo di fumo e di sudore, porto gli occhi incongrui di un androide e sfioro ogni stipite con la fronte.
Eccessivo, ingombrante, sempre fuori posto, non riesco a trovare vestiti né scarpe e parlo ogni lingua con l’accento sbagliato.
Non ho una patria in cui non sia straniero.
Sono la testa mozzata di Elias il maniscalco, che rotola nella polvere a metà della prima pagina di Q, e insieme le braccia alzate di Elias il marine, che negli ultimi venti minuti di Platoon viene falciato mentre gli elicotteri si allontanano: tutti e due hanno capito troppo tardi che nessuno verrà a prenderli, mentre gli alieni arrivano, e io lo capisco adesso, che finalmente so che ERI TU LA MIA VAZQUEZ, e sai che vuol dire, per me infinitamente più di un ti amo che chiunque può spergiurare.
Vuol dire che tu saresti tornata, sempre.
Saresti tornata, e li avresti fermati, sventagliando a tappeto mentre uscivano dalle sfottute pareti, e mi avresti raccolto sventrato chiudendomi le ferite con le dita.
Ma adesso no: adesso io sono Elias, tutti e due.
E non serve dirti che lui non ha bisogno di te, perché è già il settimo cavalleggeri, l’apprendista con la bisaccia, Chris il superstite, Ripley.
Lo sai, ed hai scelto lo stesso.
Forse, è giusto così.
Io non sono in carriera, non ho soldi né un lavoro buono, non sono un professionista in niente, non sarò mai qualcuno.
Non posso offrirti niente: ho le mani vuote, e tra poco sarò tutto vuoto, potrai gridarmi dentro ma ti risponderà solo l’eco, dovrei farmi una doccia e smettere di piangere, ma non voglio fare né una cosa né l’altra, non voglio più fingere di essere: me ne fotto di tutto questo cazzo di mondo di merda, sì, avete capito tutti, adesso basta, game over.
E vaffanculo se invece dovrei svegliarmi riposato tra quattro ore e sistemare il disco e ripartire, dicono alla TV che non dormiamo e guidiamo ubriachi fradici, cazzo, bastasse bere e non dormire per essere come sono io adesso, due mani sullo sterzo senza più né testa né cuore, carne da macello di cui non frega niente a nessuno.
Loro che ne sanno, di com’è stare soli, che ne sanno di com’è, quando i chilometri sono l’unica fottuta speranza che hai, di allontanarti da te, perché non hai niente a cui tornare.
Che ne sanno di com’è, quando non te ne frega niente di niente, e non dormi per niente, altro che quattro ore, perché sgrani gli occhi solo sull’incubo in cui sei da sveglio: che ne sanno di com’è, quando la strada ti ha triturato, e sei solo gli avanzi di una bestia investita nel retrovisore.
Se mettessi la strada che ho fatto negli ultimi sedici anni un chilometro appresso all’altro, credo che ne uscirebbe un nastro lungo da infiocchettare il mondo dieci volte: finalmente un bel regalo, da lasciarti in cima alle scale un’alba senza sole, una lettera d’amore che non sia solo parole messe in fila una notte che le lacrime ti hanno lasciato abbastanza occhi per riuscire a scriverle senza mangiarsi l’inchiostro, oltre che sfilacci di quello che resta di te.
Si, lo so, in questi giorni non lo scarteresti neanche, ma dovrà pur finire, e allora io sarò qua, se ci sarò ancora.
E ci sarà anche il mondo, questo e quello di Oz, dove tornare.
Weh spricht vergeh, no, non è vero che passa, vaffanculo Nietzsche, lurido nazista del cazzo, non è vero che passa, ma io sono qui, e sono i due Elias in uno, non mi serve la scure e nemmeno un M16, vienimi addosso, non mi fai paura.
Stanotte niente quattro ore di sonno, e nemmeno di pianti, stanotte che la luna è uno spicchio appena e io sto qua come Ciaula e tutto il mondo è un’immensa miniera nera.
Ma la luna c’è, comunque, e io so che esiste.
Oz è ancora là.
E anche tu ci sei, sotto la mia pelle, nelle mie ossa, nel mio sangue.
Sei la mia Vazquez, e tornerai a prendermi.
Un attimo prima che arrivino, entrerai sparando e li terrai lontani abbastanza perché non mi facciano a pezzi, e il tuo sguardo sarà l’ultima cosa che vedrò, prima che tutto sfumi sui titoli di coda.
Prima di svegliarmi in un mondo senza dolore né rabbia né colpe, in cui c’è una strada di smeraldo, in cui non mi lascerai.
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sabato 23 agosto 2008
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