L’idea di una antologia avente come oggetto una selezione quanto più completa ed esauriente del percorso poetico di Maurizio Leo, mi solleticava da tempo, anche perché abbiamo dinanzi un autore davvero singolare, i cui versi sino adesso hanno procurato non pochi problemi a quanti hanno tentato una sistemazione analitica organica e puntuale. Maurizio Leo, che oggi vive e opera a Copertino in provincia di Lecce, nasce nel 1959, e da più di quindici anni porta avanti con encomiabile impegno una piccola casa editrice I Quaderni del Bardo, paragonabile per qualità editoriale alle pubblicazioni di Vanni Scheiwiller. Non possiede una distribuzione, né un catalogo, non ha un ufficio stampa, non ha un correttore di bozze, spesso la sua casa diviene un piccolo magazzino per i libri che lui realizza, costruisce, accudisce: eppure questa preziosa realtà che si muove nell’instabile e multiforme mondo dei libri (basterebbe leggere Il Controllo della parola di Andrè Schiffrin per i tipi di Bollati Boringhieri per farsene un’idea), nei suoi sedici titoli annovera nomi come Paolo Valesio (sino al 2004 resposabile del Dipartimento di Italianistica della Yale University, oggi nella prestigiosa Columbia University negli U.S.A.),un inedito di Vittore Fiore che ha impegnato e ha fatto ruotare attorno a questo volume, energie intellettuali come Massimo Melillo, Domenico Fazio, Rina Durante e ancora Maurizio Nocera e Elio Coriano. Sempre rigorosamente con le sue forze cura Il Bardo, una rivista a distribuzione gratuita (militante ad onor del vero), con un inserto dedicato alla poesia dal titolo “Allestimento” che ha ospitato un inedito del poeta cileno Arturo Morales, di chiara fama internazionale. Di lui hanno scritto pubblicamente Antonio Errico, Paolo Valesio, Mario Cazzato, Antonio Tarsi, Ennio Bonea. Privatamente, numerose le lettere di stima poetica di Francesco Saverio Dodaro. Maurizio Leo è stato tra i primi a ricevere una scheda critica e a essere ospitato con alcuni suoi inediti poetici sul sito web di letteratura e poesia diretto da Luciano Pagano, e di cui sono redattore www.musicaos.it. Grazie a questa operazione editoriale, posso permettermi la piccola presunzione di poter dichiarare di avere una conoscenza completa di Maurizio Leo e la sua opera. Leggendo L’Uac, il suo primo lavoro del 1981, già si intravede chiaramente da alcuni titoli quali saranno le coordinate poetiche che daranno poi vita alla sua identità (Pre-morte, Post-mortem, Luce e Morte, Diversità, Disperazione, Danza di Morte, Il Vino Maledetto, Per i Sobborghi, LSD, Nel Buio, Inutilità) . Un canto di disperazione quello di Leo nel suo L’Uac, che si perde in un abissale eterno ritorno. Scrive lucidamente Antonio Tarsi: “ (…) Allora poi cosa resta ai piedi del monte? Nulla forse nulla e ricominciare sia pure confusamente e surrealmente non sembra neppure più possibile da tre, ma da chissà dove…”. Un discorso poetico comunque ancora incerto, mai immaturo, però come di chi non ha trovato il modo di stare in punta di piedi sul baratro. Poi da Dogmaginazione, del 1992, comincia la svolta, chiamiamola formale, sperimentativa, lessicale di questo autore. Un libro che è volontà di bottino, di raccolta, in cui i versi sono incarnazione dodecafonica della meraviglia presente nell’Attendere, non importa cosa … fosse solo anche l’attesa della Fine, a costo di pagare un prezzo altissimo. Successivo all’Albergo di Latta del 1994, raccolta di transito immaginativo in un universo altro della poesia, vede la luce un vero e proprio capolavoro: Fobia. Per definirlo occorrerebbe parlare di un vero e proprio saggio per versi sull’Empietà, in cui si assiste ad una scrittura slegata da qualsiasi legame alla realtà, agli oggetti, ai volti, alle storie, perché il corpo poetico si incarna in un’Apocalisse il cui fuoco brucia, disintegra e scioglie qualsiasi cosa vi si trova dinanzi, lasciandovi solo cenere: sublimazione del nichilismo par excellence. Riportiamone un brano per chiarire le idee: “Ho masticato i capelli dell’universo, saziandomi fino a scoppiarne moralmente. Non mi hanno fatto schifo! Questo lo dovevo pur dire. Quanto di più schifoso esiste che noi non sfioriamo? I cadaveri sprofondati nei sensi dell’essere,nei domini dell’irreale, certo non provano un forte sgomento, tra i nefasti miasmi di un’impresa comune. FINORA MI SONO SOLO INGANNATO. Ho bestemmiato fuggendo, con una ferita alla testa ela rabbia del linguaggio mi affrettava il passo; sono caduto in una pozzanghera, l’acqua era sangue, sangue vergine, sangue d’innocenti; fredda è la brutalità del cacciatore, che nell’inverno bianco, insegue l’uccello ai piedi di un castagno. Volgare terra, un giorno sarai sballottata tra le mura dell’universo,e quel giorno VOI, vi romperete la testa, e saranno sventure e maledizioni le corruzioni delle vostre moralità”. Ma Maurizio Leo, nella sua carriera di poeta, sembra seguire il desiderio di sorprendere i suoi lettori e non solo. Nel 1998 c’è un vero e proprio cambio di point of view, nell’orizzonte del Nostro, tanto che ontologicamente ed esistenzialmente rivoluziona i codici, i versi diventano sincopati, spezzati, quasi a voler rendere violenza alla Poesia, ma alla maniera di un coitus infinitus, come fece gia Allen Ginsberg o William Burroughs nel suo Nova Express . Già perché dal 1998 la dimora che Maurizio Leo sceglie per farsi vivere poeticamente, è la stessa di Hemigway, Faulkner, Kerouac, Bukowski, un tratto della storia della poesia internazionale, raccontata magistralmente nel 2005 da Fernanda Pivano nel suo The Beat Goes On , per i tipi di Mondadori. “ la macchina si è rotta/ mi hanno rubato il fegato/questa salita infinita/ senza una strada/ tristezza che si scioglierà in un sorriso/ queste scogliere/ come una camera da letto/ho consumato fiammiferi e sigarette/ sui tetti scorre l’acqua dei critici/ musica posa le mani/ ehi! Charles mi devi 40 dollari” (non suona più il jukebox nell’appartamento di Allen, 1998). Esiste però una strana coincidenza, forse metastorica, fortemente astratta, tra una svolta di tal sorta, a questo punto anche timbrico-ritmica, proprio a cavallo tra il 1998 e il 1999: la nascita dell’Hip Hop, che guardacaso, viene fatta coincidere convenzionalmente con la pubblicazione nel 1999 del singolo Rapper’s Delight da parte del gruppo newyorkese Sugar Hill Gang. Una sintesi, forse ai più potrebbe sembrare azzardata, assolutamente riuscita tra la cultura beat e quella della nuova cultura (in quegli anni ovviamente) afro-americana. Il risultato sarà Il Bazar delle parole scomposte (2002). Per la cronaca, nel 2000, Maurizio Leo, pubblica, continuando instancabilmente la sua attività editoriale, alcuni suoi versi nell’antologia dal titolo Absentia , la prima antologia di militanza scritturale, che ha pubblicato gli interventi di quei poeti che in quello stesso anno, hanno dato luogo a performances nei pub salentini come L’Old Crown di Copertino, il Sirtaki di Porto Cesareo, gli Addams di Lecce. Ma ritornando al Bazar delle parole Scomposte non a caso Paolo Valesio scrive nella prefazione: “E’ interessante per esempio vedere come in questi testi i lacerti di una certa retorica modernistica del Mediterraneo (…) si inseriscano in una prosaicità contemporanea post-industriale (dentro una sola immensa periferia del mondo), e vengano poi smistati a uno sfondo nordico-gotico tutt’altro che mediterraneo (…) Analogamente è molto beat-vagabondante”. Ma facciamo parlare i versi : “ ci siamo fermati nei gabinetti/ di un autogrill/ ermetici/ ci porteranno sulle nubi dell’inquietudine/ chissà se per domenica arriveremo/ all’hotel plaza/ nello spazio del silenzio/ nell’assurdo che ci spinge ad avanzare/ poi un cartello: accendete le sirene”. Nel suo ultimo lavoro dal titolo Il cimitero di memoria, Maurizio Leo sembra mantenere il suo trend di ricerca sintagmatica lavorando su di un’espressività poetica lacerante del dubbio, dell’angoscia, del lutto, della separazione. Recupera toni iperastrattamente poetici ma di una polarità negativa, producendo versi come se fosse un novello Aleister Crowley che scrive sotto la dettatura del demone Aiwass il grimorio maledetto “The Book of Law”. Il paragone non è inappropriato perché qualcosa di infernale si cela nei versi di Maurizio Leo, che riesce a costruire architetture poetiche dall’umbratilità goticheggiante di un Blake nel celeberrimo “Matrimonio del cielo e dell’inferno”. Maurizio Leo fa sua l’esperienza beat, pulp, assorbendone la matrice codificata nell’ambito dell’espressività letteraria quando scrive la gioia non è scomparsa/ non è scuro il mattone/ grondante di sudore/ non può erigerlo/ ma sono vere le lacrime dell’indiano alto due metri/ che nell’estasi scompare ma la supera creando un suo percorso dove il corpo poetico si sbriciola in abissi dove i ricordi, la memoria divengono abominii che scarnificano, lacerano una demografia perversa che annuncia il viaggio: “ Ci ritrovammo, fermi, innanzi alle croci del piccolo cimitero di Memoria. Pietre e croci. Legno e fiori. Polverosi viali e poi qualche filo d’erba. Attendemmo l’arrivo per poi ripartire. Attendemmo, in questa minuscola parte di mondo, in questo lembo di terra di nessuno. Qui di Memoria “. Al di là di una possibile ragione decodificativa sulla produzione poetica di Leo, esiste la metà oscura di tutta questa faccenda. Ebbene se dovessimo spiegare il perchè di un poeta beat, o post-beat, in un territorio come il Salento, lontano dai miasmi dei sobborghi delle grandi metropoli americane, o comunque distante da quelle città italiane che hanno avuto l’opportunità di ospitare mostri sacri della beat - come Genova che nel maggio del
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lunedì 10 dicembre 2007
Maurizio Leo. Del Gatto delle Fusa e del suo strusciamento (Lupo editore)
da www.musicaos.it
fonte iconografica da www.ilmessaggero.it
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